giovedì 22 luglio 2010

ULTIMO BALUARDO




La cassa tipografica assomiglia a quelle bacheche porta ninnoli dove, quando fai visita ad un amico, è bello perdersi, prendendo e osservando ora questo, ora quello. Animaletti, sassolini, ricordi di viaggi e di incontri.
Lei, invece, in ogni scomparto, accoglieva una sola lettera e solo quella, un solo segno di punteggiatura, un solo spazio, in quantità proporzionate alla frequenza di utilizzo.
Capitava, a volte, che una forma (stampo, per intenderci) cada e tutte le lettere di vario stile e misura, si mischino, ebbene, il mettere a posto ognuna di loro e nella cassa giusta, è sempre stato il compito del nuovo garzone di bottega, che deve memorizzare dove collocarle.
Che cosa affascinante era, guardare i più esperti, infilare senza quasi guardare, ogni letterina al suo posto, ripescando quelle che accidentalmente cadevano nel posto sbagliato.
Anch’io, dopo tanti anni ho acquisito quella tecnica, addirittura mi lanciavo in virtuosismi che solo io potevo notare, stringere tra il pollice e l’indice un’intera parola e con piccoli movimenti posare prima tutte le “A” poi tutte le “B”…
Un mondo, un universo fatto di parole, punteggiature, spazi.
Oggi se al posto di una “A” metti una “M”, torni indietro ed effettui la sostituzione, la giustezza della riga l’effettua il computer.
Prima, con il compositoio stretto nella mano sinistra, una volta chiusa la riga, sostituire una lettera più larga con una più stretta, portava via maggior tempo che a comporla interamente.
Per fare spazio, in tipografia, (devo farci entrare una nuova macchina) ho svuotato un’intera cassettiera dalle lettere che conteneva, per poi buttarle.
Venti cassetti, centoventi scomparti ognuno, quasi due quintali di materiale, dove oggi, cliccando con il mouse, apri una o due tendine piene di caratteri di ogni foggia e dimensione.
Le vecchie tipografie, di questi cassoni, ne contavano decine e decine, dal corpo 50 righe, di legno (circa 23 cm.), al corpo 6 punti, di piombo ( circa 2 mm.).
Ora me ne è rimasto uno solo, ultimo baluardo, ai confini di un deserto dove i Tartari non si vedranno più.
In alcuni paesini, in alcuni quartieri di città, resistono ancora piccole tipografie, con pochi vecchi artigiani, che ancora si appoggiano sull’avambraccio il trasportatore di storia che è il compositoio, una volta vi si serravano, ad una ad una, tutte le righe dei libri, dei giornali, dei biglietti d’auguri e degli annunci di dipartite, parole grandi e piccole, in grassetto e in corsivo, importanti e futili.
Non dirò più:- Ho finito le “A”. Devo scomporre qualche forma. Proprio così, spesso capitava che alcune lettere finivano, per comporre una nuova pagina, bisognava scomporre la precedente.
Se andate in qualche piccola tipografia, dove ancora c’è un vecchio tipografo, domandategli come si compone una riga, come si separano tra loro, come si serrano sul compositoio.
Vi assicuro che lo farete felice, vi assicuro che un moto di commozione arriverà dal suo cuore fino a voi.
E’ giusto sia finita, era un lavoro duro e oggi è decisamente poco remunerativo, nessuno più di me lo sà. Trent’anni fa volli impararlo proprio perché mi affascinava, entrai in una bottega e dissi:- Non voglio essere pagato, insegnatemi quest’arte, poi si vedrà.
Probabilmente sono stato l’ultimo.
Sicuramente sono stato uno degli ultimi, un cavaliere con la lancia in un mondo di fucili automatici.

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