giovedì 22 luglio 2010

IL MIO SOLCO

Una volta ero una sbarra di ferro lunga circa quattro metri di tre centimetri di diametro.
Mi avevano posata su tre staffe appese ad una parete nell’officina del fabbro del paese.
Fui tolta da quella posizione, di tutto riposo, per divenire una leva destinata a scalzare le radici di alberi abbattuti, quindi il fabbro mi tagliò in due parti quasi uguali, una delle due, alla quale venne appiattita un’estremità e appuntita l’altra, divenne appunto una leva ed io venni riposta in mezzo ai pezzi già tagliati che si trovavano sotto al bancone da lavoro.
Rimasi nascosta per lungo tempo, rimasuglio tra i rimasugli.
La lunga sosta in quella posizione, pensavo fosse da addebitare al fatto che il fabbro si fosse affezionato a me,in quanto pareva trovare sempre una scusa per non utilizzarmi.
- E’ un peccato segarla, la lunghezza che ha, potrebbe tornare utile in un’altra occasione-diceva Tonio.
-Non mi va di torcerla, è così diritta – insisteva.
Era sabato quando entrò un carrettiere con una sbarra in mano, quasi uguale a me, dico quasi, perché lei aveva un’ampia curva nel mezzo.
- Il cavallo si è imbizzarrito – disse il carrettiere agitandosi e mimando i movimenti dell’animale – ha cominciato a correre, uscendo di strada, è entrato in un podere e dopo avermi fatto cadere, ha continuato ancora un po’ la sua corsa fino a che le ruote del carro si sono andate ad incastrare in un fosso scavato di traverso, fermando la sua folle corsa.
- E quello che hai in mano cosa centra in tutto ciò – disse Tonio il fabbro.
- Centra, centra, questa è la sbarra di sostegno situata sotto al carro, in corrispondenza della sponda posteriore. Quando le ruote sono entrate nel fosso, il carro si è abbassato urtando una grossa pietra, la sbarra si è piegata ed alcune tavole del pianale si sono spaccate, ora, per poterle riparare, devi prima raddrizzarla.

- Ne ho una che mi sa, fa giusto al caso tuo – disse Tonio con il fare di chi ha chi sa quale grande idea – questa non la raddrizziamo più. – mi afferra ed io comincio a sognare i grandi spazi verdi che costeggiano le vie di campagna. La strada che scorre sotto di me, a chilometri, spesso butterata, e l’acqua delle pozzanghere mi viene schizzata addosso, rinfrescandomi e solleticandomi.
-Mannaggia qua, mannaggia là…- è il carrettiere che impreca, come ho sentito dire, fanno spesso quelli che appartengono alla sua categoria. Il motivo di tanto baccano stava nel fatto che ero di due centimetri più corta di quanto necessitasse e che Tonio non aveva altre sbarre con le caratteristiche che occorrevano in quell’occasione.
Tonio, con il suo carattere sempre tranquillo anche se ora un po’ beffardo, riesce a calmarlo e gli da appuntamento per l’indomani.
Sfumano, ovviamente, i miei sogni di vagabondaggio e tornata al mio posto, forse come la volpe con l’uva troppo alta, penso che dopotutto le pozzanghere non necessariamente ospitano solamente della fresca acqua piovana e quindi gli schizzi, possono non essere sempre piacevoli.
Nonno Vittorio è sempre stato amico di Tonio.
Andava spesso da lui, dopo una giornata di lavoro, a farsi una partita a scopa. Abitava già nella casa dove abita ora, vicino all’officina, quindi prima di andare, preparava una brocca di vetro con vino misto a gassosa, e per la durata delle sue abluzioni post-lavorative, la lasciava, per rinfrescarla, nel lavatoio con il rubinetto aperto dal quale faceva scorrere l’acqua fino a sommergerla per metà – Così scende che è una bellezza – soleva dire.
Un giorno, durante la solita partita, Vittorio dice: - Tonio, quando avranno ultimato la parte nuova della casa, voglio lastricare l’aia per farne un bel cortile e costruire un portone per dividerlo dalla strada così mia moglie Cetta potrà stendere la biancheria senza farla coprire di polvere.
- E da chi te lo fai costruire il portone?
- Lo costruisco da me. –disse Vittorio, con l’ironia di chi si aspetta di essere preso in giro
- che viene proprio come lo voglio io.
- Ma già l’hai fatto un progettino o almeno uno schizzo a penna?
- E che, mi chiamo Michelangelo io che mi metto pure a disegnà! ce l’ho tutto qui-
disse Vittorio, rimarcando ciò che stava asserendo appoggiandosi l’indice, curvo dal lungo utilizzo di vanga e zappa, alla tempia.
- Bene, portami la lista di ciò che ti serve con tutte le misure e lascia fare a me. Oh, oh, questa è la quarta scopa che faccio in questa mano. Il tuo portone ancora non esiste e già lo hai collaudato a testate?
- Ma che dici, sei tu ad avere la testa così dura che tieni a bada i muli a capocciate. Rispose alludendo agli animali che Tonio ricovera nel retrobottega, in attesa della ferratura. Si alzò e allontanandosi disse che sarebbe tornato con la lista.
Ancora oggi sento i bambini chiamare quella rimessa “La baracca del mulo” anche se da anni nessun mulo ci mette più zoccolo, ossia da quando Tonio ha chiuso l’attività.
Tonio, per un po’, è riuscito a combattere gli attacchi delle zappe a motore dei trattori con i loro pezzi di ricambio già belli e fatti e di altri “affari giapponesi”, come di solito chiamava tutte le innovazioni tecnologiche, ma i prezzi diventavano sempre più competitivi e il soldo non mancava più come un tempo. Ad aggravare la situazione ci si misero anche i serramenti in alluminio.
A Tonio era rimasta solamente qualche partita a scopa o a briscola, ogni tanto gli portavano, da aggiustare, pezzi di ringhiera in ferro battuto che poi veniva appeso negli ingressi degli appartamenti a mo’ di attaccapanni, lui ci aveva messo cuore, sangue e sudore senza contare le innumerevoli bruciature alla forgia, proprio così, perché tra l’altro, quelle ringhiere, magari, le aveva fatte proprio con le sue mani. Le aveva fatte per impedire alle persone di cadere dalle scale o dai balconi ed ora servivano a non far cadere i cappotti dalle pareti.
Un giorno, un tizio, gli portò un vecchio aratro da accomodare: - Deve venire “quasi” come nuovo – disse calcando su quel “quasi” – ma non troppo, si deve sempre vedere che è una cosa rustica.
Doveva essere esposto in una manifestazione “Per il recupero della nostra cultura rurale”. Da quarant’anni, Tonio, sentiva qualcuno che voleva recuperare il rurale, da quando, fuori dalle città, era tutto ciò che esisteva, nei piccoli paesi doveva ancora cominciare a sparire e nei grossi centri nascevano comitati per farlo riapparire.
Affittano o comprano case per le vacanze in campagna “per stare a stretto contatto con la natura”, passando prima dall’avvocato per denunciare il vicino che possiede alcune galline allegramente razzolanti fino nei pressi della loro proprietà – Non ci si può stare per la puzza, bisogna pure intervenire in qualche modo- poi si mettono in auto e vanno alle loro manifestazioni “recuperatrici”.
Oppure, come quel tipo che gli portò la testiera del letto della nonna, tutta lavorata, con delle rose in ferro battuto, anche lei prodotto del lavoro di Tonio, quando già aveva comprato la saldatrice elettrica, ma che comunque volle fare con i metodi che solo un vecchio artigiano poteva conoscere.
Aveva acceso la sua compagna forgia e dopo aver fatto numerose rose in lamiera , che sembravano vere, dopo il taglio e la curvatura di tutti i pezzi occorrenti, prese mazza, chiodi e borchie, cominciò a battereil ferro rovente sull’incudine e “ding – ding – ding” unì tutti i pezzi, nemmeno un pezzetto che quel suono acuto non bloccasse perfettamente al suo posto, ne andava veramente fiero. Ebbene, l’opera d’arte, quel tipo la doveva piazzare sul muretto che fungeva da divisorio tra il corridoio e la sala da pranzo – Però, come sono brutte tutte quelle borchie – cantilenò il cittadino – non è che le potete eliminare sostituendole con delle normali saldature, così diventa più liscia ed è più facile da spolverare – disse accoltellando l’orgoglio già ferito di Tonio – e visto che vi trovate, togliete anche alcune rose, così numerose sembra tutto troppo pacchiano – insistette, rigirando la lama nella ferita prodotta nell’animo dell’artista del ferro. Dopotutto che ci si poteva aspettare da uno che oltre a farsi mettere il cancello automatico si era fatto applicare il comando a viva voce direttamente sul cruscotto dell’auto, per lui era troppo faticoso anche premere il pulsante di un telecomando, tutto in nome del progresso.
Nonno Vittorio tornò con la sua lista dove c’era annotato tutto l’occorrente: chiodi e vite di varie misure, borchie, dadi e bulloni, una serratura e varie cerniere e… una sbarra per il bloccaggio del portone dall’interno.
Venni presa da Tonio, mi accorciò e il pezzo tagliato lo strinse nella morsa. Lo segò per alcuni centimetri sulla lunghezza, lungo una delle estremità, formando una croce sulla sezione, allargò a raggiera i bastoncini risultanti e l’altra estremità la curvò fino a formare un anello.
Anche ad una delle mie estremità fece un anello, prima di serrarlo completamente mi fece scorrere all’interno dell’occhiello del mozzicone unendomi nuovamente a lui ma in un modo meno rigido. Esistiamo così uniti, infatti,da quando la sua parte somigliante alle zampe di un tavolino, venne inserita in un foro e saldamente cementata, ancorandoci al muro che tuttora ci ospita.
Ora sono la sbarra di ferro di un portone.
Sebbene avanti con gli anni e scurita dalla ruggine, sono sempre forte e adempio pregevolmente al mio compito, incastrandomi ancora bene e senza traballamenti nell’alloggio avvitato sul vecchio portone.
C’è stato un tempo, però, all’epoca della mia uscita dalla bottega del fabbro, in cui ero bella e liscia, con un abito fatto di due strati di colore; uno nero e lucido che palesava la mia recente nascita, uno più aderente che serviva a preservarmi dalla ruggine per un tempo il più lungo possibile. Di quest’ultimo abito, porto ancora delle tracce, la dove mi si formarono piccole rughe durante le curvature per l’anello e per l’uncino.
Il mio uncino… ma sapete che è proprio bello! Appuntito quel tanto che basta ad agevolare il suo ingresso nell’alloggio del portone ma non tanto da costituire un pericolo per chi mi mette nella giusta posizione.
- Lascia stare quell’asta! Dicono gli adulti ai bambini che si mettono a giocare con me – che te la sbatti sulla testa. Non si riferiscono mai al mio uncino come ad una cosa pericolosa e di ciò ne vado proprio fiera.
Una delle cose che mi da più soddisfazioni è quella frase che dicono ormai da tre generazioni, prima di spegnere le candele e le lanterne, un tempo, e le lampadine oggi:
- E’ stata messa la sbarra al portone?
- Si! Risponde la famiglia in coro.
- Bene! Allora, buonanotte.
E’ sempre stato il capo famiglia a chiudere il portone a fine giornata, ma tutti quelli che si sono succeduti, non avrebbero preso tranquillamente sonno se non dopo aver pronunciato quella fatidica domanda.
Nell’istante stesso in cui viene pronunciato quel “bene”, mi irrigidisco e fermo, spingendo tra l’anello sul muro e quello sul portone, e comincio un’altra notte di lavoro.
Quel “buonanotte” mi da una tale forza che un grosso autocarro non riuscirebbe nemmeno ad aprire una piccola fessura tra i battenti del mio portone.
A volte faccio anche gli straordinari. Dopo pranzo i bambini, appena finiti i compiti, scendono in cortile e si mettono a giocare, la nonna prende una sedia e si accomoda a cavallo della soglia di marmo che fa da confine fra il cortile e la strada.
Il nipotino più grande chiude un’anta del portone, mi aggancia e a turno con il fratellino mi usano come un trapezio, si appendono con le mani e dondolano, oppure si agganciano con la piega delle ginocchia, imitando i pipistrelli.
Anche se mi sento piegare, devo sforzarmi a rimanere al posto, altrimenti potrebbero farsi del male, come non smette mai di dire la nonna, e come se non bastasse verrebbero sgridati anche dal padre perché non vuole giochino con me.
Invece io mi diverto a giocare con loro, ci fu un’occasione in cui, non posizionandomi bene, rischiarono di farmi cadere e loro con me.
Piano, piano, con una vibrazione e con un tremolio, nell’anello mi ci infilai da sola, sai gli sculaccioni, altrimenti e poi addio ore liete con i bimbi.
Tra le mie attività vi è anche uno svago, un unico svago, veramente è quasi un vizio.
Quando la mattina vengo sganciata, mi lasciano andare ed io comincio ad oscillare, avanti e indietro, fino a che ho un po’ di rincorsa, dopodiché mi fermo.
- E il bello dov’è? Ci si potrebbe domandare.
Il bello è tracciare un solco sul muro con il mio uncino, come farebbe un compasso. Ogni giorno oscillo per qualche secondo e ogni giorno di più aumento la profondità del solco, c’è sempre un granellino di intonaco da far cadere o un pezzetto di cemento da staccare.
In questa casa, però, c’è sempre stata un’abitudine stagionale, bella sotto un certo punto di vista ma brutto sicuramente per quel che mi riguarda.
Già Vittorio, il nonno dell’attuale padrone di casa, quando venivano le prime belle giornate di primavera, soleva prendere del cemento per riempire il mio solco, lo faceva seccare e dopo avergli dato il tempo di indurirsi con della carta vetrata lo lisciava fino a farlo diventare una superficie liscia.
Successivamente, apriva il lucchetto che chiudeva una piccola porta che si trova davanti a me, dall’altra parte del cortile ed entrava in un piccolo sgabuzzino dove teneva riposte tutte quelle cose che ne i bimbi ne i curiosissimi gatti, numerosi nei dintorni, dovevano riuscire a raggiungere, tra le quali la pompa che viene solitamente usata per irrorare di verderame la vigna. La prendeva e la metteva nel lavatoio e dopo averla lavata, dentro e fuori, la riempiva di candida calce.
Con la pompa sulle spalle cominciava a girare per il cortile, con la mano sinistra azionava la leva e con la destra, che impugnava il tubo come fosse una spada, indirizzava lo spruzzo sulle pareti che come bastioni circondano il cortile, nonché sulla riparazione fatta per nascondere il mio solco.
Il bello sta nell’ampiezza illusoria che il sole da al cortile riflettendo su quelli che sono diventati dei candidi muri; il brutto, invece, nel fatto che io devo cominciare tutto daccapo.
Ormai mi ero rassegnata al fatto che non avrei mai saputo quanto sarei riuscita ad andare profonda, se non per quello che sarei stata capace di fare fino alla primavera successiva.
Venne da un altro paese, per motivi di lavoro, il cugino più giovane di Giacomo, l’attuale padrone di casa.
Benché avesse trovato una dimora per soggiornare in paese, era spesso ospite in questa casa, soprattutto per cena.
Doveva essere sicuramente una brava persona, mentre erano a tavola si sentivano risate e gridolini di meraviglia, da parte di tutti, conseguenza delle sue battute e dei suoi racconti.
Era anche una persona molto ingegnosa.
Per contraccambiare all’ospitalità, durante i fine settimana si presentava con una cassetta per gli attrezzi e una busta di plastica nell’altra.
Nella cassetta c’era uno di tutto; pinze, cacciaviti, chiavi d’ogni sorta, tutto messo in ordine e pulito.
La busta di plastica l’utilizzava per portare ciò che gli serviva di volta in volta. Se doveva aggiustare una sedia, ci metteva colla e chiodi; doveva sistemare una porta che toccava a terra, ci metteva una pialla e lo stucco per il legno.
Un sabato arrivò, come al solito, con la mano destra portava la cassetta ma fatto strano, nella sinistra stringeva una piastra di ferro.
Ciò che attirò in particolare la mia attenzione fu proprio la piastra, aveva la forma di un arco e alcuni fori lungo i bordi.
La lunghezza, la larghezza e la forma la rendevano tremendamente somigliante al mio solco. Accidenti! Il mio solco.
Mi si avvicina, posa la cassetta a terra, mi scosta e con la sinistra posiziona la piastra proprio a coprire il mio spasso e con la destra comincia a far ruotare una matita, ad uno ad uno, in tutti i fori che avevo già precedentemente notato. Una volta ultimata questa operazione si mette la matita sull’orecchio, posa la piastra a terra e dopo aver infilato la spina di un trapano in una presa della corrente inizia a forare il muro in corrispondenza dei cerchietti tracciati precedentemente, conclude l’operazione infilando nei buchi dei tasselli di plastica.
Dopo aver preso alcune viti, riposiziona la piastra nel posto prescelto e la fissa saldamen-te al muro.
Immaginate il mio stato d’animo; lui dal canto suo pensava di fare cosa utile, ma io…
Quando l’arco di ferro è definitivamente ancorato al muro, mi afferra e mi fa oscillare, avanti e indietro, e come è ovvio, tutto quello che riesco a produrre, dopo averlo urtato, è togliere le impronte delle mani e a stento, riesco a graffiare leggermente questa rompiscatole.
Per parecchio tempo, la mattina, non ho più quel mio unico svago. Mi lasciano andare, sbatto con un secco “TOC!” contro quell’inopportuna barriera, oscillo due o tre volte e mi fermo, tutto qua, il mio solco è ormai solamente un triste ricordo.
Fino a che, un giorno, il rumore che faccio contro la piastra, diventa impercettibilmente più fesso, mi riprometto che l’indomani devo farci maggiormente attenzione.
Effettivamente, la mattina dopo, lo strano rumore si ripete e… giubilo, una vite sporge in modo significativo.
Da quel giorno, per qualche tempo, quando vengo abbandonata, al mio oscillare sbatto contro la piastra con tanta forza da vibrare tutta. Finalmente, dopo mille sforzi, cade la prima vite e una alla volta, anche le altre si smuovono, restano in una posizione di precario equilibrio per un tempo più o meno lungo, ma poi immancabilmente cadono sul pavimento del cortile.
Sbatto, sbatto, sbatto e finalmente la piastra rimasta attaccata da una sola vite, scivola, dondola e… cade!
Il mio solco, dopo tanto di quel tempo da sembrarmi un’eternità, lo rivedo, sono al settimo cielo, ma purtroppo si stanno già avvicinando le prime calde giornate di primavera.
E’ una domenica con un bellissimo sole, quando vedo scendere Giacomo. Entra nello sgabuzzino uscendone con barattolo di stucco per muri, con la calce e con la famosa pompa per il verderame.
Lava la pompa e la riempie con la calce precedentemente preparata, si arma di una spatola e con lo stucco si avvicina al mio solco.
Comincia tappando minuziosamente tutti i buchi intorno al solco che dopo la caduta delle viti somigliavano a tanti piccoli vulcani, dopo aver levigato il tutto con la carta vetrata, si alza e si allontana.
Torno con la memoria a quando suo padre compiva gli stessi gesti e prima ancora il nonno; a quel cugino con la sua celante opera e cerco di immaginare a quale altra iniziativa si dedicherà l’attuale rappresentante della famiglia per impedirmi di continuare a scavare.
Giacomo, fischiettante e con la pompa sulle spalle, inizia a spruzzare le pareti con tutta la calma e l’accuratezza che contraddistinguono la stirpe da generazioni, durante questo lavoro.
Si avvicina sempre più a me, è proprio vicinissimo al mio solco, smette di pompare e si siede sui talloni soffermandosi con lo sguardo sul risultato del mio sollazzo.
Ecco, penso, ha notato di aver dimenticato di tapparlo.
No, non si è dimenticato, vi infila con delicatezza la punta delle dita e fa cadere la polvere di intonaco che con il tempo si è posata sulla superficie inferiore del solco.
Si rialza, ricomincia a pompare e con un’attenzione quasi esagerata riesce a non farci entrare nemmeno una goccia di calce, ne rifinisce per bene il bordo fino a far scomparire ogni traccia dei fori per le viti.
Si allontana di qualche passo fermandosi ad osservare il suo operato ed il mio, quasi fosse un’opera d’arte.
Sono felice come non mai, il mio solco non è stato nemmeno sfiorato da tutto il lavoro, anzi, è stato incorniciato con cura da candida calce e ancora oggi è alla mia portata anche se da allora sono passate molte primavere.
C’è sempre un granellino di intonaco da asportare, seppur minuscolo, e giorno dopo giorno il mio solco aumenta di dimensione e profondità.
A questo punto posso sperare di poterlo fare per sempre.
_ E’ stata messa la sbarra al portone?
- Si!
- Bene, allora buonanotte.

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