domenica 23 febbraio 2014

Viaggi

Stazione di Gravellona Toce - 1973


In stazione ci andavo per puro svago tranne quando si partiva per Bolzano. Allora si giungeva a quella di Fondotoce con l’autobus. Anche in quella stazione ci andavo per svago con Luigino e immancabile era la visita del modellino di transatlantico esposto nel bar, quindi era un luogo familiare, però, quando ci andavo con papà e mamma carichi di valige, l’effetto era completamente diverso. Una piacevole ansia si impossessava di tutti i sensi, i recettori, tesi verso la massima attenzione, pasteggiavano dei volti in attesa alla biglietteria o sul marciapiedi vicino ai binari. Quattrocento chilometri diminuivano gradualmente fino a giungere dove le nonne ci aspettavano per miracolosi abbracci. Capivo di essere quasi arrivato a Bolzano la dove la valle dell’Adige si stringe fino a far passare solamente l’acqua del fiume, l’autostrada, la statale e la ferrovia; una sull’altra si accavallavano e separano per passare in quella strettoia che separa il Trentino dall’Alto Adige, terra natìa.
La stazione di Gravellona, invece, cominciai a frequentarla come viaggiatore quando mi iscrissi al liceo artistico e, per poterlo frequentare, dovevo arrivare fino a Novara. Ci incontravo Pietro, mio coetaneo che però, non essendo mai stato bocciato, andava già per il secondo anno.
Su quel treno, che nel frattempo si era trasformato in Littorina, si percorreva una linea con un solo binario quindi, di quando in quando, per non scontrarsi con treni che andavano in senso opposto, si fermava in attesa. Su quel treno conobbi un sacco di persone e chissà quante altre ne avrei conosciute se, invece di interrompere gli studi per partire definitivamente verso sud, oltrepassando di parecchio Novara, avessi continuato a vivere a Gravellona, due di loro ricordo particolarmente, Patrizia e Paolo, ora affermato pittore di Villadossola.
Era il 1977quando, per raggiungere mio padre, partii per Cellole, paese del casertano di cui nemmeno conoscevo l’esistenza.
Rimasi con lui dalle vacanze di Natale fino a marzo inoltrato, quando, per far scendere mia madre in un estremo tentativo di riconciliazione matrimoniale, tornai per alcuni mesi a Gravellona.
Padre e madre tentarono di ricomporre la medesima famiglia quindi mamma tornò al nord per approntare quello che sarebbe stato il definitivo trasloco. Dovevo nuovamente tornare a Cellole ma, a quel punto, conscio di dover abbandonare Gravellona per sempre, in uno degli immancabili pomeriggi insieme a Luigino, organizzammo una ubriacata d’addio guarnita di pane, formaggio e registratore a cassetta. Avviata la registrazione ci producemmo in una sequenza infinita di risate e rutti, volevamo esorcizzare la tristezza dell’immancabile addio che ci saremmo dovuti dare da lì a qualche giorno. Del viaggio che ne seguì, ho scritto già qualcosa: http://imieisolchi.blogspot.it/2013/10/un-polentone-minturo.html.
Nel 1980, durante un viaggio estivo che mi portò nuovamente a Gravellona, cercai l’opportunità di poter lavorare in quelli che erano i luoghi in cui ero cresciuto. Già tipografo da un paio d’anni, feci il giro di tutte le tipografie della zona: una mi offrì la possibilità di esprimermi in una prova d’arte per tastare le mie capacità, era la tipografia Saccardo di Ornavasso. Tornai a Cellole con l’idea che forse mi avrebbero chiamato, in quanto, da lì a poco, uno dei fratelli Saccardo, doveva subire un intervento chirurgico, per questo motivo avevano bisogno di qualcuno che lo sostituisse; non ci credevo molto, avevo solamente diciotto anni e avrei dovuto sostituire uno molto più grande ed esperto.
Era il novembre di quello stesso anno quando mi arrivò una telefonata dove mi si chiedeva se ero disponibile a trasferirmi ad Ornavasso. Che feci? Accettai al volo e nel giro di poche ore ero pronto per partire.
Per un paio di mesi abitai presso Luigino, poi affittai un piccolo appartamento al quale si accedeva da un ampio cortile. Per entrare nel cortile si oltrepassava un ampio portone che dà direttamente su via Alfredo di Dio, allora era l’arteria principale che portava al Sempione, autotreni a automobili passavano a dieci centimetri dalle mie finestre che essendo a piano terra, ovviamente, erano costantemente chiuse. Utilizzando steet view giunti al numero civico 78, quello che corrisponde, più o meno, a quello dove abitavo, si può notare un autocarro che, transitando, si trova a pochissimi centimetri da alcune finestre sprangate e parzialmente chiuse da lamiere, ebbene, quelle erano le mie finestre, dalle quali, per tutta la notte, entrava un rumore tale da impossibilitare un normale sonno.
In quella tipografia mi trovai bene, tutti mi trattavano bene e facevo molte ore di straordinario, qualche soldo in più faceva veramente comodo. C’era sempre da fare, a tutte le ore del giorno, anche quando la tipografia era chiusa, ci si ritrovava in due o tre persone per mettere elastici intorno a mazzette di soldi in quantità enormi, pedane intere di banconote da sistemare per la spedizione utilizzando elastici contenuti in sacchi alti mezzo metro. Si stampavano i soldi di un famoso gioco di società, il “Monopoli”.
Vicino a dove abitavo c’era la sede della Croce Verde, associazione di pronto soccorso dove spesso, facendo da volontario i turni di notte, dormivo in un letto decisamente più silenzioso che però mi costava levatacce notturne per accorrere a richieste d’aiuto.
La mia prima uscita fu una vera avventura.
Stavo facendo il turno di notte insieme a due compagni, uno era Antonio, fratello di Luigino.
Si trattava di effettuare un trasporto d’urgenza a causa di un malore di una persona anziana. Giunti sul posto ci accorgemmo subito che sarebbe stata un’impresa; una piccola costruzione a due piani, all’interno una stretta scala composta da scalini particolarmente alti. Il vecchino stava sopra. Dovemmo attaccarlo con delle cinghie ad una barella e passarcelo, praticamente in verticale, oltrepassando i passamano.
Entrati in ambulanza staccai il tubo dell’ossigeno da una piccola bombola portatile che avevamo incastrato sotto le cinghie per infilargli nel naso i tubicini presenti nell’impianto dell’ambulanza stessa. Bloccata la barella si parte in velocità verso l’ospedale di Omega. Ovviamente, essendo piena notte, facemmo presto.
Arrivati all’ospedale, dall’esterno aprono le porte posteriori, metto comodo al traspordo il vecchino che non prese conoscenza per tutto il tratto e sgancio la barella. Gli inservienti dell’ospedale tirano il lettino e a quel punto, il vecchino comincia a gemere, io che stavo già scendendo cercavo di capire cosa avesse, ci volle qualche secondo per capire che mi ero dimenticato di sfilare i tubicini dal naso, quindi, praticamente agganciato all’ambulanza il poveretto veniva trattenuto per le narici mentre gli infermieri non capendo, continuavano a tirare.

Tutto si risolse per il meglio però quel fatto provocò risate per parecchi giorni.

venerdì 21 febbraio 2014

La stazione

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La stazione si trova in una zona di Gravellona che sembrava lontanissima, ovviamente perché, quasi sempre, la si raggiungeva a piedi.
Non si andava a prender treni, ma a guardarli; si camminava lungo le scarpate della linea ferroviaria per cercare chiodini e, quasi senza accorgercene, ci trovavamo al passaggio a livello di Ornavasso, da dove, via Campone, tornavamo indietro.
Al Campone c’era una grossa discarica di spazzatura, sempre con qualche focolare acceso, era un buon metodo, allora, ma anche adesso,  per mantenere bassi i volumi e per poter conferire sempre nuovo materiale senza saturare il sito. Una nostra visita era quasi d’obbligo, una volta giunti lì. La curiosità governava la nostra attenzione, come sempre, dopotutto. Una cosa che mi attirava era trovare bottiglie di vetro deformate dal continuo, lento, ardere dei cumuli. Le bottiglie, posate su pietre o barattoli, nello scaldarsi si ammorbidivano e vi aderivano dando vita a sculture a volte veramente attraenti.
Altre volte trovavamo pezzi utili ad aggiustare o modificare le biciclette che, non essendo mai dotate di buoni copertoni, venivano utilizzate fino a quando, questi, resistevano, a volte anche avvolti, nei punti più consumati da una brusca frenata, con adesivi o pezze incollate, dentro e fuori; spesso era sufficiente un buon cerchione, il buon Dario, vigile costantemente vigile in crociera, una volta mi urlò di fermarmi proprio perché stavo viaggiando velocemente, passando da via Milano a via Marconi, con il fragore metallico dei cerchioni che, da lì a poco, non protetti dalla solita gomma, sarebbero collassati
A volte si tornava fino a casa facendo rotolare, a turno, un copertone d’automobile.
Una volta, appena giunti sotto casa, prendemmo un gatto e, trattenendolo all’interno con una pezza annodata, lo facemmo rotolare per la discesa iniziale del vecchio tratto di via Alluvione che si trova sotto casa di Luigino.
Immaginare come camminasse il povero gatto, appena riusciva a scappare da quella giostra forzata, è abbastanza facile.
Purtroppo è normale, per i bimbi, usare le proprie angherie per  fare esperimenti con gli animali e con le loro reazioni o almeno, era cosa normale.
Sul muretto che divideva via Alluvione dalla Roggia ci si distendeva armati di cappi realizzati con fili d’erba: vittime di queste pazienti attese erano le lucertole.
Luigi, prima del Pratolàinfondo, disponeva di un pezzo di terra dove Mario, suo padre, e anche suo zio Ianni, lasciavano alle dipendenze del tempo e della metereologia, vecchie automobili dimesse. Quando il clima non era dei migliori ma ormai ci si trovava in giro, si passavano ore e ore all’interno di queste vecchie auto a fantasticare su cosa avremmo fatto da grandi e sui viaggi che avremmo voluto intraprendere, perché, io e Luigino, avremmo passato tutta la nostra vita insieme e, quasi sicuramente, avremmo lavorato in una qualche attività tutta nostra, non sapevamo che la vita tiene per nulla in conto i desideri dei piccini, o quasi.
La nostra preferita era un’Anglia bicolore, avorio e nocciola, praticamente un cremino, con il vetro posteriore caratteristicamente inclinato al contrario, puzzolente di plastiche vecchie, tappezzerie ammuffite e, soprattutto, di ruggine, ma diveniva, di volta in volta, elicottero, camion o nave.
Nel "Cortile del Pratolàinfondo", questo era il nome di quel piccolo appezzamento, davamo una mano a Mario anche a sistemare l’orto o a governare galline, conigli e tacchini, cosa che faceva divertire oltremodo il piccolo Rocki, il pezzato, piccolo botolo di Luigino; come si entrava nel pollaio, cominciava a correre all’impazzata appresso a starnazzanti galline che, dimentiche del fatto di non poter volare, si cimentavano in balzi supportati da sbattute d’ali che se fossero state un poco più lunghe, le avrebbe sicuramente portate a librarsi come era nel loro irrealizzabile desiderio.
Prendemmo un tacchino e, ovviamente di nascosto, raggiungemmo il palazzo del Luigino. Saliti nel sottotetto, ci affacciammo da uno degli abbaini per buttare il volatile di sotto. Le ali, decisamente sproporzionate rispetto al corpo, rallentarono parecchio il volo ma, il poveretto, cadde a capofitto nell’orto del Lagostina che si trovava, pochi metri più in là, dall’altra parte della rampa che portava al Pontediferro.
Scendemmo a rottadicollo per tutte le scale per non permettere al tacchino di scappare, cosa che avrebbe voluto sicuramente fare. Riuscimmo ad acchiapparlo e lo riportammo al pollaio.
Non so se è bene pubblicare queste righe, e vero che i tacchini non sono tanto facilmente raggiungibili dai bimbi di oggi e che abbiano da svagarsi con simulazioni al computer forse è meglio che usare gatti e volatili vivi.
Nei pressi della ferrovia, invece, le uniche nostre vittime, erano monete e chiodi, più spesso chiodi, le monete, per quanto di valore minimo, le usavamo per promuovere la carie, però, qualche volta, soprattutto quelle da cinque o da dieci lire, le attaccavamo con il nastro adesivo alle rotaie laddove si potevano attraversare ad un passaggio a livello che si trovava a poche decine di metri dalla stazione. Ci si allontanava e con il mento appoggiato alle braccia piegate e posate sulla sbarra bianca e rossa, (allora si arrivava giusto a quell’altezza), si attendeva la locomotiva. Appena passata cercavano le monete che il passaggio del treno aveva fatto balzare lontano. Sulla rotaia rimaneva impressa l’immagine della faccia della moneta che vi era posata sopra mentre dalla  moneta scompariva quasi completamente; ne risultavano delle piastrine metalliche oblunghe, non se ne poteva fare niente se non ammirarne l’unicità. Con i chiodi era meglio, dopo schiacciati dal treno, si appiattivano contorcendosi e allungandosi, diventando salgariani Kriss. Fino all’età di dieci o undici anni, abbiamo avuto l’onore di poter vedere ancora in attività quelle sbuffanti motrici che, bruciando carbone, rimpicciolirono il mondo.
Se dovevamo andare semplicemente dall’altra parte della linea ferroviaria ma le sbarre erano abbassate o si stavano abbassando, ci attardavamo ogni volta per il semplice gusto di veder passare il treno.
Appena al di là, sulla destra, scendeva lievemente una strada e poche centinaia di metri dopo c’era il deposito di un “rutamat”. Il deposito di ferrivecchi, era circondato solamente da una rete metallica nella quale trovavamo sempre un varco, (altrimenti lo aprivamo noi), dal quale accedevamo per procurarci pezzi di ferro e i costantemente necessari pezzi per le biciclette, ci si andava sempre di domenica: c’era meno gente in giro e il deposito era incustodito.
La stazione questo era, un posto da dove partire, fuori, e anche un posto da dove partire, dentro, bastava guardarla una stazione o un treno, e, soprattutto noi piccoli, si cominciava a viaggiare.
Oggi, invece, l’uomo ha generato luoghi, o meglio, nonluoghi, dove le persone si radunano per far compere e dove, chi desidera vendere, organizza eventi musicali o altro. Quando ero piccino io, invece, oltre alla stazione,  c’era un luogo e luogo era, chiamato La pineta. Prima del ponte che attraversa il Toce, dove ora c’è lo svincolo autostradale,  c’era una piccola pineta, lunga poche centinaia di metri, ospitava feste e avvenimenti con tanto di canti e balli. L’odore delle salsicce e della polenta o del riso, avvolgeva tutto, bimbi giocosi e adulti avvinazzati che davano sfogo ai loro movimenti e al vociare. La Festadellunità era un’avvenimento atteso anche da noi più piccoli, non vi si trovava giostre o quant’altro adatto a noi, ma il clima di manifesta gioia espressa dagli adulti, ci appagava lo stesso. Canti e musica, quasi sempre, anzi, sempre, liscio, erano eseguiti da gruppi che facevano di tutto per assomigliare ai Casadei, vere star dell’epoca,  sia nell’abbigliamento degli uomini, che nelle gambe scoperte delle donne dove l’apoteosi di paillettes e lustrini raggiungeva il massimo esprimibile.

Quella pineta non c’è più, nemmeno si saprebbe come riprodurla anche se ancora viva nel fantasticare dei bimbi d’allora e in molti rimpiangono quel modo di gioire eppure, non so se, a parte il romanticismo dettato dai ricordi, oggi ci si divertirebbe nello stesso modo, sicuramente non si potrebbe parlare al telefonino comprendendo ciò che, dall’altra parte dell’etere, non possono fare mai a meno di riferirci, schiavi come siamo di un’apparecchio che ai tempi della Pineta e della Stazione si vedeva solamente nei film di fantascienza.

mercoledì 19 febbraio 2014

Su per monti ed alberi


In uno dei soliti pomeriggi di svago, il gruppo che si formò era particolarmente nutrito: non solamente da me e da dall’immancabile Luigino, anche da mio fratello Marco e da qualche altro buceta, la banda così formata partì alla volta di Dilàdelponte per un assalto ad un ciliegio di cui già conoscevamo le doti.
Giunti che fummo sul posto, cominciai ad arrampicarmi utilizzando quello che, nella mente del contadino, doveva essere un deterrente proprio per chi voleva compiere quel tipo d’impresa; aveva, infatti, avvolto di filo spinato tutta la parte bassa del tronco dell’albero, senza sapere che per me altro non era che una facilitazione. Avevo un fisico ossuto da somigliare ad un sedia sdraio e l’agilità di un furetto. Salito sull’albero cominciai a mangiare, e a cogliere i rossi frutti per i compagni che erano in attesa ai piedi del donatore.
Ad un certo punto sentimmo le strilla del proprietario, correva alla nostra volta volteggiando un bastone a guisa di lignea Durlindana. Essendo in alto fui il primo ad accorgermi del “pericolo” quindi urlai a tutti  di scappare precisando: - Ci vediamo nel cortile del Giorgio! Io rimasi nascosto tra le fronde, anzi, per meglio celarmi salii ulteriormente mentre l’urlatore intimava a invisibili malandrini di scendere, pena chissà quale punizione. Lo vedevo bene, a volte il suo sguardo incrociava perfettamente il mio tanto da credere di essere stato individuato, invece, passati alcuni camaleonteschi minuti, si dovette convincere che i monelli fossero scappati tutti tanto da indurlo ad abbandonare il campo. Il tempo di vederlo allontanare quel tanto che mi bastava per guadagnare il cancello, che saltai sul prato cominciando a correre all’impazzata. Il contadino s’avvide del mio precipitare ma altro non potè che urlare d’avermi riconosciuto, cosa che munì di ali le mie caviglie.
Al cortile del Giorgio si accedeva da via Roma, al centro, un piccolo recinto delimitava un orto e la libertà di qualche pennuto da uova e padella. Intorno, sui quattro lati, un edificio con una balconata al piano rialzato: vi abitavano alcune famiglie, quella del Giorgio, appunto, quella del Novellino e quella del Fabriziobalzani. E’ simpatico notare come per alcuni compagni si usava solo il nome, per altri il cognome e, per altri ancora sia il nome che il cognome. Fabriziobalzani, per distinguerlo dai fratelli, lo chiamavo appunto con nome e cognome legati, il fulvo Novellino di nome si chiamava Antero mentre, per Giorgio, il cognome Bonvento lo utilizzavo solo raramente, non ricordo se anche loro fecero parte dell’escursione frugifera, comunque là incontrai gli altri per partire verso nuove avventure.
Mi è simpatico l’anteporre l’articolo ai nomi propri, peculiare caratteristica dialettale che dove vivo ora non fa parte del dialetto, così come  mi è simpatica la circostanza linguistica, propria dell’alto Piemonte, di anteporre la parola “drè” (dietro), ai verbi coniugati all’infinito per produrre il gerundio: “sun drè nà” letteralmente “sono dietro ad andare” invece del nazionale “sto andando”, così come “suma drè fa” per dire “stiamo facendo”. (divagazione letteraria che denota il mio amore per i dialetti)
Dal retro del cortile si andava per via della roggia, così chiamavamo via Ripari in quanto costeggiava il canale fino all’incrocio con via Milano. Laddove la via più si avvicina al canale, una chiusa faceva da utile attraversamento per  andare dall’altra parte del canale, oltrepassato il quale, un lungo muro fungeva da sfioro per riversare l’acqua nello Strona qualora la chiusa venisse chiusa per la manutenzione del canale stesso. Camminando su quel muro giungevamo al prato che, in mezzo al paese, d’estate diveniva il naturale lido dei gravellonesi bagnanti.
Poco prima di quel punto, il canale biforcava formando una piccola isoletta, “l’isolino” o “isolino dell’amore”. All’ombra di alcuni alberi, il  fresco da loro prodotto avvolgeva alcune panchine e una cappelletta con una Madonnina. Era meta dei ragazzi più grandi e complice del formarsi di coppie, da lì il nomignolo dato da noi più piccini.
Dove via Ripari incrociava via Milano, sulla sinistra, una casetta ospitava il Pagella. Nella sua officina aggiustava biciclette e motorini. All’interno la luce era poca e tutto era nero di grasso, l’unica nota di colore più vivo era dato dai cicli in attesa di riparazioni e dai manifesti che pubblicizzavano copertoni e ingranaggi. Sul retro una pianta di cachi morbidi, attendeva la maturazione dei frutti per sporcarci all’inverosimile del vermiglio succo ogni volta che il Pagella si assentava.
A destra, un negozio di vernici, poi trasferitosi all’incrocio con via Stampa c’era il negozio dei fratelli Storti, non che fossero deformi, Storti era semplicemente il cognome.
Uno dei due, amico di mio padre, si chiamava Remo, e con lui come protagonista, ho un divertente avvenimento da raccontare.
Per un paio di estati, mio padre e mia madre ci portarono in montagna laddove termina la valle Strona. 

Da Campello Monti, l’ultimo paese della valle, ospitato da uno stretto fondovalle, quando nevicava veniva letteralmente sommerso dalla bianca coltre. Gli abitanti abbandonavano anticipatamente il borgo per scendere più a valle lasciando solo un vecchietto che, mi dicevano, produceva dei tunnel che, da casa, gli permettevano di raggiungere la chiesa per annunciare, suonando la campana, il suo stare bene.
Si partiva a piedi, zaino in spalla, per una camminata di un’ora circa. Dapprima si attraversava un pianoro stracolmo di mirtilli, poi si attaccava la salita verso l’alpeggio che ci ospitava.
Se si proseguiva per un’altra ora, si arrivava ad un pianoro dal fondo umido di torba nel quale le scarpe affondavano leggermente. Era sempre ricoperto di alti steli che terminavano in un candido batuffolo, circondavano un piccolo laghetto sorgivo, punto di nascita dello Strona.
Il proprietario dell’alpeggio, affidò a mio padre alcuni lavori di manutenzione da svolgersi nella casa in cambio di accoglienza.
Non c’era corrente elettrica, la luce per la notte era affidata ad alcune lampade che, attraverso un lungo tubo, prelevavano il gas da una bombola.
Al piano terra vivevano una ventina di mucche e alcuni maiali, l’odore era un problema solo i primi giorni, per diventare normalità fino a non sentirlo più.
Lungo un sentiero sulla sinistra, al limitare del piccolo altopiano, dopo mezz’ora di passeggiata si giungeva ad un altro alpeggio, nonostante fosse molto più piccolo, offriva riparo ad un centinaio di capre. Il soffitto della stalla, che era il pavimento delle due stanze dove dormivano i pastori e dove producevano formaggio, burro e ricotta, di cui facevamo abbondanti ed evacuative scoraggiate, era formato da tavole distanti alcuni centimetri tra loro, a detta del pastore questo facilitava il calore proveniente dagli animali. Di notte quel calore era sicuramente un sollievo, l’ovino profumo un po’ meno.
Il proprietario, dopo la mungitura, ogni mattina ci lasciava, fuori dalla porta, un secchio d’alluminio per metà colmo di latte caldo. Mia madre lo bolliva vino a fargli formare una spessa coltre di panna che chi beve il latte d’oggi fa difficoltà solo ad immaginare. Lasciava il secchio senza far alcun rumore per non spezzare i suoni del mattino, tra i quali lo squittire delle marmotte, tranne una volta.
Lo sentimmo urlare da lontano senza distinguere cosa dicesse fino a che non fu abbastanza vicino a casa da udire:
- Chi l’è sto storti, sel ciapi!
Ci alzammo di corsa e usciti trovammo il pastore, in mano, una matassa indistinta di nastro adesivo che poi scoprimmo essere quello da imballaggio del colorificio Storti.
Che era successo?
Il Remo, amico di papà, insieme alla figlia, era nostro ospite dal giorno prima.
La sera, dopo coricati, alcuni vitelli lasciati liberi, gironzolavano intorno a casa menando il sonoro campanaccio che viene loro appeso al collo proprio per poter facilmente individuare ove si possano trovare quando non visti. Questi campanacci, nell’assoluto silenzio montano della notte, entravano nelle orecchie in modo decisamente fragoroso, papà e Remo, che aveva appresso un rotolo del suo scotch da imballaggio, bene pensarono di avvolgere quei campanacci per meglio agevolare il notturno andare verso Morfeo.
Però, quei tranquilli e inudibili vitelli, raggiunsero l’alpeggio dove dormiva l’allevatore, ad un mezz’ora di cammino più su, salirono la breve scala che portava al ballatoio sul quale erano stati posati alcuni grossi contenitori di latte. Attratti dal profumo di quella lecconia, rovesciarono, senza farsi accorgere, i bidoni colmi del prezioso liquido che, nel precipitare a terra persero il tappo nonostante la chiusura a leva.
Nello scoprire il motivo, a causa del quale l’allevatore non s’avvide della presenza vicino alla porta di casa dei fortunati giovani bovini, il povero Giovanni, così si chiamava, andò su tutte le furie scendendo urlando e a piè levato fino a dove abitavamo noi che giorno ancora non s’era fatto.

Tutto poi tornò nella calma finendo in grasse risate tanto da farmi ricordare l’avvenimento fino ad oggi. 

lunedì 17 febbraio 2014

Qua e là per il paese

dietro il cancello che dava su via Alluvione


Non ricordo se già dalla prima elementare venimmo ospitati, con le aule, presso la “Casa del Popolo”, mi sembra dalla seconda in poi, comunque, le quattro sezioni di chi era nato nel 1962 si ritrovarono in quello che probabilmente era un appartamento. Si salivano due rampe di scale: di fronte, una porta a vetri dava su un balcone che portava nell’appartamento di chi, giù in strada nel piazzale antistante, gestiva un distributore di benzina; sulla destra una porta dava su un disimpegno dal quale si poteva andare nelle aule. La prima a destra era la mia, poi veniva quella della Spezia, quella della Frattini (dove c’era il Luigino) e poi quella della Nava. La mia maestra, Caterina, la chiamavamo maestra Ina. Tutto il 1962 gravellonese si trovava in quei metri quadri mentre il resto dei ragazzi frequentava presso l’edificio elementare “ufficiale”.
I minuti di ricreazione si srotolavano tra il disimpegno e le scale, i maschietti si rotolavano a terra, fingendo ltte e battaglie, con la non tanto celata intenzione di guardar sotto alle gonne delle bimbe, nonché a quelle della bionda moglie del benzinaio. Quando le condizioni meteo lo permettevano, si scendeva in cortile, questo si affacciava sull’esterno di un lungo capannone, sede della bocciofila e delle teatrali virtù dei bimbi che, sotto la guida di instancabili maestre, si prodigavano in pieces di cui, in parte, ricordo qualcosa. Una in particolare mi vide nei panni di uno di quegli osti carogna che non vollero ospitare Gesù e famiglia giunti in città per il censimento. Ero l’oste di un improbabile “Cervo Bianco” e mandavo bellamente da altre parti Giuseppe con il suo ciuccio carico di moglie e figlio. Mi sentivo responsabile “del freddo e del gelo” che colse la famigliola nel mediorientale deserto.
Il Pedolazzi, un pomeriggio che ci vedeva perder tempo in orari extracurriculari, anzi, pernullacurriculari, mi chiamò all’improvviso, mi giro e un sasso tirato al volo con un piede mi prese in pieno l’incisivo laterale destro, ancora ne porto il segno essendosi scheggiato nella parte interna, uno delle tante prove che veramente ho abitato a Gravellona. Sergio lo conosco da quando frequentavamo l’asilo, io da poco venivo da una delle lunghe permanenze dalle nonne a Bolzano, parlavo quindi con un’inflessione veneta, quella di Bolzano, appunto, lui, per prendermi in giro proprio a causa di quell’inflessione, mi chiamava “saponèta”, marcando su quella singola “t” tipica dell’italico nordest; da allora abbiamo camminato spesso insieme sulle strade di Gravellona.
Dal bocciodromo alla latteria i metri erano poche decine, questa si trovava nella piazza del municipio che dava le spalle alla Casa del Popolo, di fronte alla latteria una fontana futuristica, per allora, ornata da un’agave. Nel salire sulla fontana, non mi avvidi della punta di una delle foglie di quella strana pianta che voleva passarmi attraverso, fortunatamente mi bucò solamente un fianco ma il dolore fu acutissimo, più per la carica batterica di cui era portatrice che per il foro stesso, diventò una delle tante croste che toglievo e che si riformavano.
Un po’ più in su, verso Pedemonte, c’era il campetto dell’oratorio al quale, però, si accedeva da via Liberazione. Il cancello d’ingresso era sulla sinistra della sede dell’ACLI, sopra la quale viveva don Erminio, il giovane prete che supportava il più vecchio don Angelo.
Mi trovavo spesso da lui a produrre manifesti disegnati e scritti a mano che annunciavano le varie attività dell’oratorio, dopo averlo aiutato più volte, mi regalò una scatola con la completa attrezzatura utile per lavori al traforo.Me ne innamorai subito infatti conoscevo quel tipo di attività di cui era cultore il padre di Valerio, la prima persona che conobbi con il problema che porta ad un intervento alle corde vocali che conduce ad un  particolare modo di parlare. Ricordo una persona cara e piena di pazienza.
All’oratorio era d’obbligo scorticarsi ginocchia e gomiti inseguendo palloni d’ogni sorta, quasi sempre giocavo in porta e nel tuffarmi era impossibile scansare tutte le pietre e, talvolta, anche le pozzanghere. Prima d’andarci avevo l’accortezza di controllare che non ci fosse un certo Mariolino; un ragazzetto poco più grande di me ma dalla prepotenza decisamente gigantesca, non mi piaceva quindi evitavo di trovarmi ad occupare i suoi medesimi spazi, Gravellona era grandissima, un posto senza Mariolino sempre si trovava.
Ad esempio, via Stampa, la percorrevo quasi fosse un posto esotico, alcuni amici abitavano in quella zona. Da via Stampa si prendeva via Villette che portava ad un’altra via, mi sembra Resiga o Rassega spuntava su via Sempione, là dove Gravellona puntava verso Ornavasso passando dalla zona Campone. Poco prima dell’incrocio, sulla sinistra, un lavatoio faceva mostra di se facendosi annunciare dal vociare delle donne che vi lavavano i panni, era tappa fissa per abbeverarci prima di avventurarci, solitamente in bicicletta, verso la “Frana” dove i motorizzati si esprimevano con salti e acrobazie, mentre noi biciclettari sbattevamo a terra ginocchia e fronti scendendo i ripidi pendii che ogni volta risalivamo spingendo a mano quelle che, con uno sforzo di fantasia e di cartoline tra i raggi, diventavano le nostre motocross.
Con la bicicletta, sempre in compagnia del Luigino, salivamo fino a Casale per menarci giù fino a Gravellona, sparati come razzi, come razzi senza freni; una volta la catena mi si schiantò bloccando improvvisamente la ruota posteriore che, prima di riuscire a fermarmi, tracciò un lungo serpente nero lungo la strada. Qualcosa da quell’esperienza la imparai, imparai che era meglio avere una catena con una maglia apribile all’occorrenza, infatti, le volte successive scendevo si con la catena, però in tasca, andavo veloce senza il rischio di consumare il copertone.
La velocità faceva impazzire entrambi, infatti, andavamo insieme a Cavandone dove il Minazzi ci dotò di impalcatura dentale, una volta ci andammo attrezzati di pattini a rotelle. Luigino era più fortunato, le ruote dei suoi pattini erano di gomma mentre i miei avevano ruote di bachelite o di qualche altro materiale ugualmente duro, questo provocava un vibrare alle mie caviglie che persisteva anche molto dopo l’arrivo in pianura, da Cavandone scendevamo fino all’incrocio con la strada che porta dentro Pallanza, il dolore più forte ce lo procuravamo ai polsi, il continuo fermarci contro muretti e guard-rail ad ogni curva troppo stretta, non essendo questi dotati di cuscini o altro, affidava alla sola elasticità delle giunture, la possibilità di non finire fuori strada.
Dire che eravamo matti non descrive proprio bene quei due mocciosi che eravamo.
Cavandone, dopo la visita dentistica di rito, mentre i nostri genitori si abbandonavano alle chiacchiere d’adulti, ci vedeva camminare sui tetti delle case, addossate una all’altra offrivano un percorso senza alcuna sorta d’interruzione se non dove, qualche metro più sotto, c’era una via. Più che camminare, la paura di essere scoperti, ci faceva correre su terrazzi e tegole, inventammo il parkour?

Mentre stavamo sulla sommità di un tetto, con il piede destro su uno spiovente mentre il sinistro posava sull’altro, Luigino saltò su una finestra aperta. Un suo strillo richiamò la mia attenzione; vidi il motivo di quell’urlare una volta arrivato presso di lui. Stava in piedi sul davanzale e, all’interno, il pavimento non c’era se non a livello di strada, parecchi metri sotto. La casa, evidentemente abbandonata da tempo, mancava quasi completamente degli impiantiti, dei quali restavano poche tavole e travi. Anche in quel caso gli angeli che ci avevano in custodia dovettero prendersi parecchie camomille, chissà se gli vengono riconosciuti gli straordinari?

L'Albero sul quale mi arrampicavo



Googlemaps l’ho usato per cercar di trovare l’albero sul quale mi arrampicavo.
In fondo a via Alluvione, una sbarra bloccava l’accesso ad un prato nel quale, più o meno legalmente, riversavano rifiuti d’ogni sorta. Questo non ci fermava dall’esplorare tra gli scarti, ogni tanto si trovava qualcosa che incuriosiva.
Quel prato lo chiamavamo “ilpratolàinfondo”. Dalla sbarra in poi si allargava fino a che ti potevi, a destra, affacciare dall’argine sullo Strona. L’argine era costituito da enormi massi che rendevano la sponda liscia, ma trovavamo sempre qualche fessura alla quale aggrapparci per scendere, altri enormi massi, distribuiti alla rinfusa, fungevano da frangiflutti e tra essi pescavamo avannotti immergendo semplicemente una tanica nelle pozze. Si andava là anche perché il torrente, acchiappato un pallone sfuggito al controllo di chi giocava vicino alla riva, lo Strona lo metteva in una continua, frenetica rotazione laddove non trovava più la via verso il Toce. Io e il Luigino che in quanto a scaltrezza non ci batteva nessuno, scendevamo e ce ne impossessavamo, anche di più d’uno alla volta.
Sulla destra del pratolàinfondo, un muro fungeva da cortina, ci separava da una lunga fossa nella quale, la “Legatoria”, buttava gli scarti di lavorazione. L'azienda collaborava con una nota casa editrice quindi, in quella fossa,  vi trovavamo interi fogli di figurine appartenenti alle varie collezioni, ci era sufficiente acquistare l’album e la collezione la finivamo velocemente, però, ogni figurina, prima di poter essere attaccata all’album, richiedeva un certosino lavoro di forbici, ma il tempo, a ben vedere, non ci mancava.
Dopo la Legatoria, una strada ripartiva verso sinistra fino ad incrociarsi con via Marconi, dirimpetto, dall’altra parte dell’incrocio, si andava al vecchio stadio al di fuori del quale, enormi cataste di tronchi, attendevano il loro turno prima di entrare in una segheria. A volte lo spazio non era sufficiente quindi venivano accatastati a ridosso di un altissimo albero, ora in quel punto, se non erro, un megaparcheggio fa capire che di quell’albero non è che qualcuno si importasse molto.
Per me invece, diventava veliero. Usando i tronchi distesi uno sull’altro come fossero una scalinata, potevo arrivare ai rami più bassi e da lì andavo più su, sempre più su; sceglievo il ramo più comodo e, schiena appoggiata al tronco, facevo penzolare le gambe. Meraviglioso diventava quel veliero quando il vento si impossessava delle sue fronde, dondolava in modo che da terra era impercettibile, ma, lassù, le farfalle nello stomaco svolazzavano gaie fino a che non mi abituavo. Quando mi abituavo? Cercavo la stessa sensazione salendo ancora, e ancora, probabilmente, se avessi continuato a vivere a Gravellona sarei ancora lì a cercar di salire oltre. Ovviamente questo non è stato possibile: me ne sono andato e han buttato giù il veliero.
Quello che si vedrebbe da quell'albero, guardando verso lo Strona, più o meno e quello che si vede in questa foto, probabilmente lo si vedrebbe più a destra; il resto che  dalla coffa si poteva mirare, lo risparmio a chi legge.
La prima volta che ho avuto a che fare con i Carabinieri è stato proprio nella fossa delle cartacce della legatoria. Io e Luigino, intenti a cercare cose utili, non ci accorgevamo che due Carabinieri, i quali indossavano solamente i calzini, evidentemente le scarpe avrebbero prodotto quel rumore che solitamente mette in fuga i criminali, arrivarono vicino a noi urlando un deciso e perentorio: Fermi!
Col cavolo. Cominciai a correre con una spinta da sotto aiutai a conquistare la sommità del muro a Luigi che era più bassino di me ma questo mi attardò quel tanto che bastava al sopraggiungere del militare.
Fummo condotti in caserma da dove chiamarono mio padre, appena giunse, senza sentir ragione alcuna, mi mollò una papagna che ricordo benissimo. Scoprimmo solo successivamente che la presenza dei militari era dovuta ad una denuncia fatta dall’azienda per la scomparsa di alcuni scatoloni contenenti enciclopedie. I ladri avevano avuto accesso allo stabilimento semplicemente sollevando un lembo di lamiera che ne costituiva le pareti.
Venimmo ovviamente rilasciati, non senza la promessa di mio padre di una più severa sorveglianza nei confronti dei due monelli.
In un’altra occasione, quel luogo diventò punto d’avventura.
Dall’altra parte di via Marconi, vicino alla “Pineta”, c’era una rivendita di materiale per l’edilizia.
Poteva mai quel luogo scansarsi la nostra visita?
Giammai. Una volta trovammo un blocco unico di polistirolo, mai più ne vidi in vita mia di così grandi; enorme ma estremamente leggero, io davanti, Luigino dietro, appoggiato il blocco in testa arriviamo fino al torrente. Acceso un fuoco, con i tizzoni cominciammo a scavare il blocco, doveva diventare la nostra barca e lo diventò, ma il metodo del fuoco per lo scavo venne abbandonato quando ci rendemmo conto che il polistirolo, bruciando, diventava duro e in alcuni punti, tagliente. Finimmo l’opera con bastoni e pezzi di vetro, nascondemmo tra i massi la barca ripromettendoci che il giorno dopo sarebbe stata campale.
Molti giorni passammo con quell’artigianale natante fino a che un giorno vedemmo dei pescatori che, montati sopra, arrivarono fino al Toce armati delle loro canne.
Non trovammo più la “barca”.
Alla fine del pratolàinfondo c’era un boschetto di robinie, una delle mete delle nostre giornate; nascosta tra gli spinosi, piccoli tronchi, c’era una baracca che mai potemmo utilizzare, era diventata un gabinetto puzzolente.
Altre ne costruimmo noi.
Al limitare del boschetto un allevamento di mucche e un campo di mais che, arrivato alla maturazione che donava morbidi grani, diventava luogo ove far spesa. Alcune pannocchie, un fiammifero e un po’ di legna: altro meraviglioso modo di passare le ore.
Via Pall e gli scritti di Samuel Langhorne Clemens, raccolti in splendidi libri, io li ho vissuti.

A ben vedere, dall’età della ragione, ho vissuto a Gravellona Toce veramente pochi anni, mi domando:- Ma quanto erano lunghe quelle giornate? Trovavo anche il tempo di abbuffarmi di libri, sia quelli classici per ragazzi che quelli che leggeva mio padre, ricordo ancora oggi il mio primo libro da lettore adulto: “Centomila gavette di ghiaccio”, era più grosso di me come quelli di Leon Uris, ma con loro ho viaggiato il mondo quanto oggi si fa con googlemaps.

Camminare

Lo Strona con la zona "Baraggia" e dietro il "Motto"


Io e il Luigino eravamo sempre insieme e camminavamo tantissimo.
Meta fissa d’estate era il lido sul lago di Mergozzo sotto la stazione ferroviaria di Fondotoce. Dal centro di Gravellona dovevamo percorrere circa quattro chilometri. Si stava ore e ore a fare il bagno in un’acqua freddissima ma alla quale ci si abituava velocemente, e ore e ore le si passava a tuffarci dalla scarpata che scendeva, sulla sinistra, dalla ferrovia. Per tuffarci dovevamo ogni volta risalire, solo a pensare quante sono state quelle risalite mi viene l’affanno, eppure, era un continuo. Era cosa anche abbastanza pericolosa, non pochi nell’ingresso in acqua, hanno sbattuto i piedi sulle rocce ma questo rendeva ancora più attraente il nostro tufarci.
Stanchi morti ci si metteva in cammino, ancora bagnati, e si tornava a casa, a volte esponendo il pollice con l’evidente desiderio di trovare il passaggio di qualche automobilista di buon cuore, il che succededeva frequentemente.
Altre volte si arrivava fino a Mergozzo, chilometri percorsi sempre a piedi, a volte raggiungendo l’incrocio che portava al paese passando per Fondotoce, altre volte attraversando il Toce su una passerella pedonale che si trovava a Ornavasso, anche questa raggiunta a piedi.
A piedi si andava a Omegna sia per strada che risalendo lo Strona.
Che stanchezza ci coglieva a camminare su quell’infinito numero di sassi sui quali si cominciava a camminare per evitare di bagnarci i piedi ma che dopo poco si cominciava ad  aggirare e scavalcare; spesso scivolosi a tal punto da farci cadere completamente in acqua.
Una volta bagnati diventava un po’ più semplice procedere e il cic ciac nelle scarpe diventava la colonna sonora del nostro risalire la corrente.
Quando non ce la facevamo più, in genere dalle parti di Crusinallo, ci sedevamo nell’acqua e discendevamo il torrente, precursori di quello che sarebbe diventato un vero e proprio sport, che ora ha tutta una sua attrezzatura sia per discese a corpo libero che con l’ausilio di galleggianti realizzati ad-hoc.
Tornare a casa bagnati e con ginocchia, caviglie e fianchi tinti di blu era più che normale.
Altre camminate ci conducevano fino a Feriolo o a Baveno, sul lago Maggiore. Si camminava per andare al Motto e a Granerolo, oppure si andava fino a Casale Corte Cerro.
Per una delle escursioni a Casale ci attrezzammo con uno zaino pronto per una scampagnata, corredato da acqua, formaggio e pane di Forzani, fornaio aldilàdelponte che produceva un particolare pane al malto che mi piaceva da morire. Oltrepassammo, salendo, il paese fino a giungere alla sommità di monte Massone; una volta lassù ci lasciammo scivolare lungo un pendio ricoperto da alta erba, ricordo una discesa che non finiva mai che ci portò fino a ridosso di alcune case.
Tornammo a Gravellona tardissimo, un po’ a piedi e un po’ con passaggi in auto.
Nel ricordare questo episodio mi ripropongo di ricostruire quel percorso con l’aiuto di Luigi, guardando le zone sin qui descritte con l’aiuto del satellite, mi sembra impossibile che due ragazzini di poco più di dieci anni, abbiano percorso tutta quella strada nell’arco di una sola giornata, in quanto non tornammo percorrendo a ritroso la strada, ma scendendo dall’altra parte della montagna.
Quel camminare era il preludio di una passione che mai mi ha lasciato.
Nel 1977 andai ad abitare molto più a sud e alla fine dell’estate successiva, con mio fratello Marco, attrezzati di tutto punto, ci incamminammo da Cellole con Gravellona come meta, da raggiungere, rigorosamente a piedi e in autostop, avevamo quindici anni io e tredici Marco.
L’anno successivo partii con la medesima volontà alla volta di Bolzano, sulla cartina che avevo appresso segnai tutte le tappe e come le avevo percorse, alla fine del viaggio, le parti percorse a piedi raggiungevano la strabiliante cifra di oltre trecento chilometri, avevo sedici anni.
Negli anni successivi era per me normale raggiungere Napoli, sempre da Cellole, in parte a piedie in parte in autostop.
Molti anni dopo, per compiere una mia sezione della Marcia Mondiale per la Pace, percorsi a piedi e spingendo una carriola, la distanza che divide il Garigliano da Cisterna di Latina, avrei volentieri continuato fino a Trieste dove la Marcia faceva ingresso in Italia, purtroppo però dovevo lavorare; la carriola, spinta da un gruppo di ragazzi arrivò fino a Roma dove altre persone dovevano prenderla in carico, purtroppo l’iniziativa si arenò lì.
Nella carriola portavo alcune manciate di terra che molte persone mi mandarono da varie parti d’Italia. Questa terra era richiesto mi fosse mandata con la descrizione del posto di prelievo e con pensieri dedicati all’iniziativa che avevo promosso per far comprendere quanto non mi piace l’idea di confine. A tutta la terra raccolta aggiungevo una piccola manciata che raccoglievo nel punto dove un cartello annuncia l’ingresso in un nuovo paese, sarebbe stato bello se quella carriola fosse arrivata fino al nord d’Italia con tutta la sua terra, fa nulla ma un certo rammarico mi è rimasto, soprattutto perché avrei potuto organizzarla meglio ma era agli inizi del mio ingresso in internet.
Camminare è un’attività che ho nel sangue nella quale ho coinvolto mia moglie Silvana.
Quando eravamo fidanzati la raggiungevo a Napoli dove viveva e si andava fino alla Villa Comunale, non una sola volta percorremmo tutta la strada a piedi, spesso ne percorrevamo lunghi tratti, sia all’andata che al ritorno, ora con lei spesso percorro i quattro chilometri di spiaggia che separano Monte d’Oro da Monte d’Argento a Minturno. Anche le montagne delle zone intorno a dove vivo vedono il menar dei nostri piedi, a spese di funghi e asparagi.
Camminare… camminare.
Camminare è anche quello che sto facendo attraverso i ricordi che vedono Gravellona e i ricordi che mi legano ad essa, protagonisti delle righe che scrivo prima che scompaiano dalla mia mente che si sta facendo vecchia.
Vero è che amici, compagni di camminata, mi stanno aiutando molto a rinfrescar le sinapsi create da piccolo utilizzando mezzi moderni che permettono di viaggiare stando davanti ad un monitor, però il camminare vero e proprio è un’altra cosa.

venerdì 14 febbraio 2014

Via Milano 35


Ecco dove si trova il palazzo che ospitava il malandrino.
Al piano terra si trovava una delle vittime dei bimbi che abitavano quel palazzo e quelli circostanti, l’ing. Priotto che, tra l’altro, era fratello della maestra elementare Cristina. Aveva uno studio, essendo lui ingegnere e finché gli schiamazzi erano gestibili da orecchie tranquille, nulla succedeva, ma se di suo, l’ingegnere già si trovava girato d’ammenicoli o se qualche ramingo pallone, con un boato, schiantava sui vetri, allora, un fuggi, fuggi animava il cortile interrato rispetto al piano stradale.
- La dovete finive di fave tutto questo vumove, qui si lavova.
Immagino il povero cristo intento a parlare con un cliente o a disegnare al tavolo, un botto di pallone che non rompeva i vetri per chissà quale miracolo, lo faceva sicuramente trasalire, riesco a immaginare me nella medesima situazione, quindi, i suoi rimproveri erano sicuramente moderati da una empatia quasi beata.
Quel cortile ci vedeva giocare tutti i giochi con cui, oggi al computer, è veramente complicato dilettarsi. Il salto della cavallina piuttosto che nascondino, ci permettevano di passare intere giornate, fino al giungere, anche invernalmente anticipato, del buio.
Le cantine erano tunnel lunghi pochi metri ma riuscivamo a farli diventare chilometrici, o era solamente il veder tutto grande di quando si è piccini.
C’erano spesso cassette di acqua minerale lungo il corridoio, ovviamente quando si aveva sete si beveva da un rubinetto, ma se trovavamo qualche chiodo, il tappo diventava bucherellato e bere della Lisiel in quel modo, era da panico, “busciava” talmente tanto da far venire male al naso.
Un volta l’Ugo lasciò la sua bici da turismo incustodita, partii all’avventura tornando a buio fatto, da non crederci, feci il giro di tutto il lago d’Orta e solo per arrivare ad Omegna si dovevano percorrere sei o sette chilometri. Tornai con un male al culo che mi durò parecchi giorni. Fortunatamente non sapevo andare in motocicletta, Roberto, fratello di Ugo, lasciava spesso la sua Gilera nel cortile, ora, se avrà modo di leggere queste righe, capirà cosa ha rischiato.
Dalla discesa che portava in cortile, scendevamo con ogni sorta di trabiccolo, qualche automobilina a pedali o camion abbastanza grande, ne ricordo uno con scritto “portata cento chili”, poco più lungo di mezzo metro, ospitava il deretano dei più temerari, per quanto portasse cento chili, non portava nessuna dicitura che spiegasse come frenare, ne fece le spese il naso di mia sorella Monica. Frenò si, ricordo bene, ma contro un muro di cemento che separava due rimesse. Dalla fronte al mento non vi erano sporgenze, non sporgevano gli zigomi e nemmeno il naso, tutto il suo volto diventò di un tondo blu da sembrare una extraterrestre.
In un’altra occasione mi beccai anche una freccia in una spalla. Avevamo attrezzato alcuni archi distruggendo un singolo ombrello, quindi sarebbe stato abbastanza conveniente mettere su una fabbrica di archi. Scendevo dalla discesa quando, spuntando dallo spigolo, mi beccai una bacchetta d’ombrello sparata dall’arco di non ricordo chi: rimase appesa e dovetti sfilarla. Non mi fece particolarmente male, quindi, gliela restituii, senza alcun dubbio gli sarebbe stato impossibile prendermi in un occhio, avevo una schiera d’angeli custodi lì a controllarmi, dovevo solo sperare che il superlavoro non li conducesse ad istanti di distrazione, evidentemente, avendo ora più di cinquant’anni, gli angeli a me assegnati erano particolarmente attenti oppure si facevano di qualche alcaloide decisamente eccitante.

Poverini, li vedo tirare un fiato di sospiro quando, arrivato al secondo piano arrampicandomi dalla parte esterna delle
da Googlemaps - Via Milano, 35 
ringhiere dei balconi, desistetti, lo stringere le bacchette di cui erano composte 
in quanto mi faceva male alle mani;. Ma, e qui c’è un grosso ma, non so quando si accorsero che ero sceso solo per andare a prendere un paio di guanti da lavoro; prima del “pratolàinfondo”, Luigino, o meglio, suo padre Mario, aveva un pezzo di terra dove teneva galline e conigli nonché vari attrezzi tra i quali, appunto, anche dei guanti.
Tornato, con tutti gli angeli intorno, questo ormai è assodato, mi arrampicai fino al quinto piano. Fortunatamente lì abitavo, infatti si affacciò la mamma di Maurizio, mi urlò qualcosa, era convinta che stessi passando dal balcone della mia camera a quello della camera dei miei genitori. Con il sangue che correva all’impazzata e con una concentrazione di adrenalina quasi vicino alla saturazione, entrai in casa e mi straiai a terra soddisfatto. Gli angeli erano sudati, molto sudati.
Spesso ci si radunava per andare in missione dilàdelponte, si arrivava fino al Motto o, qualche chilometro più in là, al Laghet. Si tratta di un ristagno d’acqua appena più grande di una pozzanghera. Vi si praticava la pesca sportiva, vicino c’era, collegato da un breve canale, un vivaio dove venivano messe le trote destinate agli ami dei gareggianti. Capitò che ci andai anche con mio fratello e mio padre, nel girare intorno mi beccai un amo svolazzante dritto, dritto su una palpebra, era chiaro ormai che avevo un culo pazzesco, avrebbe potuto beccarmi in modo più pericoloso, fattostà che il pescatore, lasciata la canna a mio padre, dovette sfilarmi l’amo.
Però quel luogo era generalmente destinazione di noi buceta durante i pomeriggi di estrema anarchia; il Laghet si trova a ridosso del pendio della montagna, evidentemente esposto a nord, durante i mesi invernali non vede mai il sole tanto che si formava un spesso strato di ghiaccio, dico si formava, infatti mi risulta che oggi non succeda più: uno dei segnali che prova il riscaldamento globale in aumento.
Non era mai come i laghi nordici, bello levigato e pronto per eventuali pattinatori. Con la superficie ondulata, piena di bozzi ma, se una destinazione pattinatoria professionale non l’aveva, aveva certamente quella dello spasso fatto di scivolate con le scarpe.  Il freddo che coglieva i piedi si manifestava soprattutto con un famoso cerchio che stringeva l’estremità delle dita, sembrava che spuntassero da un’inesistente buco nei calzini. Capitò un pomeriggio dove alcuni ragazzi più grandi ma con il cervello di poco più grosso del nostro, trovarono il modo di scendere sulla superficie ghiacciata con una 500 dove fecero evoluzioni con nostro grande diletto.
Io e il Luigi, tirando boccioni di varie dimensioni, mettevamo alla prova la nostra mira tirando ad una bottiglia incastrata, il fatto che fosse bloccata con il collo in giù la rendeva resistentissima alle sassate fino a quando, un sasso particolarmente grosso tirato da Luigi, finalmente ebbe la meglio.
Crak! Cracrak! Cracracrak!
Io e Luigi saltammo come canguri fino a guadagnare la riva, il ghiaccio, sotto l’evidente sbalzo di pressione dovuto dall'ingresso repentino dell'aria sotto al ghiaccio,  cominciò a creparsi lungo tutto il contorno del laghetto, il rumore ci impressionò talmente tanto che le ali sotto ai piedi diventarono d’aquila. Ma subito dopo, piano, piano, tastando con i piedi se fosse stata compromessa la solidità del ghiaccio, ci accorgemmo che nulla era successo che modificasse la possibilità di giocarci sopra, quindi, senza problema alcuno, ricominciammo le nostre attività.

Passando per la zona industriale e per la Madonna dell’Occhio, si tornava a casa distrutti e con i piedi che sembrava avessero preso fuoco, la ripresa di una normale circolazione del sangue e la lunga camminata eliminavano il principio di congelamento che attanagliava le dita, riportando i nostri eroi ad una condizione che gli permetteva di ricominciare tutto daccapo.

giovedì 13 febbraio 2014

Per cento lire



Con cento lire compravo una scatoletta, poco più grande di un pacchetto di sigarette, di soldatini. Si chiamavano Atlantic ed erano alti circa un centimetro. Il fornitore di fiducia era il negozio dei genitori di Cesare, cugino di Luigino.
Corredati di vari “optional”, bisognava staccarli dal supporto con il quale venivano stampati. Ruote, armi, pezzi di carrormato, molte delle dotazioni di quel mini esercito, bisognava montarle.
Come ci si procurava quella cento lire?
In via Corridoni, più o meno di fronte all’asilo, io e Marco andavamo il pomeriggio a stampare adesivi: in un locale vicino a dove ora c’è una farmacia, uno dei clienti del secondo lavoro di mio padre, aveva approntato un malsano laboratorio serigrafico. Non ci si deve meravigliare, il comfort non era tra le priorità in un posto di lavoro. Mio padre, dopo le ore in fabbrica, si metteva al tavolo da disegno per preparare, manualmente, i disegni che sarebbero serviti a realizzare le matrici di stampa. Il computer cominciava a fare la sua comparsa solo in centri meccanografici ed era utilizzato per gestire la burocrazia e per tenere aggiornato l’inventario dei magazzini, oltre che per la ricerca ma, per quello, c’erano pochi Roberto Vacca in tutto il mondo; per la grafica ci vorrà ancora qualche decennio. Seppure fosse esistito avrebbe occupato l’intero palazzo dove abitavo e per disegnare la testata di un calendario sarebbe stato poco conveniente. Era così che mio padre passava le serate: sferzando la carta da lucido con grafos traccianti tratti di varia misura. China e trasferibili, con un lavoro certosino lungo ore, si faceva quello che ora si fa attraverso le finestre che compaiono sul monitor, utilizzando topini, con o senza filo. Molti oggi diventano grafici solamente in quanto capaci di menar dita su una tastiera (ho a che fare con costoro ogni dì), la tecnica e le competenze per quest’arte, invece, pochi la possiedono nonostante, a volte, la gran volontà.
Io e Marco, ci alternavamo: uno tirava la racla sul telaio per far passare l’inchiostro attraverso la seta; l’altro toglieva il supporto stampato per sostituirlo con uno intonso. Avanti così per ore. Si tornava a casa puzzolenti di solvente.
Altro modo di procurarci la cento lire consisteva nel togliere la neve dal marciapiedi di fronte ai negozi, oppure, radunando cassette di legno per portarle ad alcuni vecchietti vicini di casa: a volte ci davano caramelle ma con quello non ci compravamo nulla, le ciucciavamo e basta.
Io ho lavorato per molto tempo al distributore di benzina del Nandino. Nandino aveva un distributore con annessa un’officina per la riparazione delle automobili. Era anche preparatore per auto da rally: lui stesso aveva gareggiato fino a che, una curva, vide lui e il suo collega volare fuori dalla carreggiata. Qualche centinaio di punti occorsero per riparare la sua pazza testa e altri per ricostruirgli il braccio sinistro.
Era amico dei miei genitori da molto prima che diventasse gestore del distributore. Ricordo quando conoscemmo Carmen, la sua ragazza da lì e per sempre; mi sembra che fosse di Briga, quella Svizzera. Tutti e due volevano un gran bene a me e ai miei fratelli.
Mi portava con lui quando provava le auto riparate, mi spassavo tantissimo quando parcheggiava derapando, per entrare a tutta velocità nel piazzale dell’officina.
La mia mansione maggiore era quella di rifornire di carburante auto e camion: ricordo benissimo quanto fosse ghiacciata, in inverno, la pistola dell’erogatore, allora non era nemmeno rivestita di plastica come quelle di adesso e quanto erano ghiacciati i coperchi del cofano delle 500, bisognava aprirli per accedere al serbatoio.
Capitava anche che, infilando un lungo ago nell’alloggio della stecca per la misurazione dell’olio, accendendo la pompa, aspirassi l’olio esausto dai motori, procurandomi, oltre a varie scorticature, anche qualche piccola mancia.
Andavo anche a comprare i pezzi di ricambio in un negozio specializzato lì vicino, la cresta che facevo sull’acquisto dei pezzi era una di quelle cose che si trasformava in Atlantic.
Le varie mance e mazzette, il 29 giugno, festa del paese, diventavano gettoni per gli autoscontri e per il calcinculo. Gli aeroplanini ci facevano diventare piccoli Antoine de Saint-Exupéry.
 Il nostro non precipitare non era dovuto alla nostra perizia di piloti ne tanto mento dalla sicurezza del mezzo, bensì (sembrava) solamente dal grande culo che accompagna le spericolatezze dei cuccioli d’uomo, infatti, mentre uno, (si andava sempre in coppia per aumentare la possibilità di vincere il giro gratis), si menava come un pazzo per girare continuamente, a destra e a sinistra il volantino, posto perfettamente parallelo al pavimento su un’asta verticale al centro dell’apparecchio, l’altro tirava e spingeva una leva premendo contemporaneamente il pulsante che permetteva di sparare, quest’azione faceva salire e scendere l’aereo con sobbalzi che facevano alzare dal seggiolino. A volte, per migliorare la presa sul piccolo volante, tutte queste manovre le si faceva in piedi, solo dopo molto tempo scoprii che la vittoria era determinata solamente da chi conduceva l’intero macchinario, io lo sospettavo, ma a scanso di equivoci, conducevo la mia parte di pericolo con grande impegno.
Io e il Luigino, partecipammo ad una gara. Avevano allestito un lunga, doppia tavolata, di fronte al municipio. I concorrenti, sedendosi uno di fronte all’altro, vennero forniti di cucchiaio e bendati. Un piatto colmo di panna venne posizionato tra i gareggianti, ci chiesero se la volevamo con l’aggiunta del cacao in polvere o di sciroppo all’amarena: optammo per l’amarena. Ci dovevamo imboccare reciprocamente mentre chi guardava si faceva scoppiare la pancia dal gran ridere. Non ricordo se il contendere era dettato dalla velocità o dal numero di piatti ingurgitati, forse per entrambe le modalità, per la quantità ne uscii sicuramente appagato.Vincemmo una quantità enorme di gettoni da usare alle giostre che finimmo quasi alla stessa velocità che applicammo a mangiar panna.

Dietro al municipio c’era la Casa del Popolo, ma questa, è un’altra storia.

lunedì 10 febbraio 2014

Via Pariani



Dal canale che passava sotto casa accedevamo alla fabbrica abbandonata Pariani.
Camminavamo dove si andava ad infilare sotto alle case fino a spuntare nel cortile oppure scavalcavamo il vecchio cancello.
Una volta dentro ogni ambiente ci vedeva a curiosare, da buoni malandrini andavamo anche sulla soffitta che era in comune con una palazzina all’inizio di via Alluvione.
In un punto della soffitta trovammo una botola, dava sul bagno di un’abitazione dove vivevano due persone anziane e, anche lì, "dispresi".
Ci portavamo appresso uno spago a quale attaccavamo un gancio che, calato nel bagno, veniva usato per far cadere e spostare oggetti. Lo spasso era nell’immaginare quei due poveri malcapitati alle prese con situazioni che non comprendevano, mai, infatti, bloccarono la botola dall’interno.
In un salone dello stabilimento trovammo un grande mucchio di tascapane militari, dentro c’erano vecchie maschere antigas, probabilmente facevano parte della dotazione di chi vi lavorava sarebbero state sicuramente usate in caso di attacco, nella sacca c’erano anche i filtri da avvitare e una scatolina con all’interno una piccola pezza e un tubetto di antiappannante. A pensarci ora si può comprendere il perché fossero ancora lì, sto parlando dell’inizio degli anni ’70 e a ben vedere la guerra non era finita da molto.
Nel nostro immaginario, quelle maschere le avremmo potute trasformare in subacquee, infatti ce ne portammo alcune, ovviamente il risultato fu catastrofico.
Prima del cancello, sulla destra, c’era un vecchio deposito del quale, a volte, lasciavano la porta aperta. Apparteneva al mobilificio Ranchini: figuriamoci se poteva sfuggire alle nostre visite. Dentro, una singola lampadina dava luce solamente alla parte comunque illuminata dalla porta aperta, nel resto del magazzino era difficile vedere qualcosa, magari un altro interruttore, da qualche parte, c’era ma non lo sapevamo. Vecchi specchi, parti di mobili, scatole colme di accessori e chiavi d’ogni forma, era meraviglioso.
Successivamente costruirono un nuovo stabile, dall’altra parte della breve stradina, accolse il mobilificio nuovo, anche quello era sede di nostri giochi, fu lì che mi piantai gli incisivi nel ginocchio. In quel cantiere le vittime furono i muratori che vi lavoravano. Ricordo che trovai del cemento fresco, ne presi una parte e la riversai in un paio di scarponi da lavoro, poi, con il manico di un badile li puntai addosso ad una parete che in quel punto sporcai con altro cemento.
Penso che fu quella l’occasione che mi rese scettico nei confronti del malocchio, se nemmeno il muratore che il giorno dopo ha trovato gli scarponi cementati al muro, ha colto nel segno, e sicuramente ci ha provato, vuol dire che il metodo non funziona. Ora rido di quei fatti ma se scoprissi adesso che un ragazzino fa di questi scherzi mi arrabbierei non poco.
Il canale, che li vicino si riversava nello Strona, faceva parte della nostra vita quanto le strade intorno alle nostre case. D’inverno, praticamente vuoto, vedeva il fondo coprirsi di neve, (il mostro non c'era, forse faceva troppo freddo anche per lui), questa ghiacciava quindi andavamo a cercare pezzi di plastica dal Gasparoli oppure scatole di camicie in qualche merceria e li usavamo come slitte, quando si consumavano troppo, eravamo belli stanchi da non cercarne altre.
Quando costruirono la rampa che permetteva di accedere al ponte militare che sostituì quello crollato a causa di una piena, lo fecero costruendo un terrapieno nel cortile del palazzo dove viveva il Luigino.
Anche la scarpata che si era venuta a formare fornì una discesa utile a scivolare con i cartoni, purtroppo il Pinuccio ne porta il ricordo procuratogli da un pezzo di vetro nascosto tra l’erba, la natica gli si aprì procurandogli una corsa all’ospedale.
Certo è che da ragazzini ne procuravamo parecchio di lavoro ai medici del pronto soccorso.


Davanti al marciapiedi del Gasparoli, il negozio di materiale elettrico dal quale compravamo i tubi di plastica per produrre le cerbottane, (era quindi anche armaiolo), c’era un marciapiedi che sulla destra si allargava un poco; in quel largo ci depositavano provvisoriamente gli scatoloni degli elettrodomestici venduti. Prima che il negozio alzasse le saracinesche per l’apertura pomeridiana, in mezzo a quegli scatoloni, ci nascondevamo in attesa che, dall’altra parte del muro, gli inservienti del laboratorio del Crola abbandonassero il posto di lavoro, per portare le paste nel negozio in via Marconi. Poi, come razzi, scendevamo giù per la discesa e arraffavamo più paste che potevamo. Molte volte i dolci li ho dovuti leccare dalla mano a più riprese, le tasche, infatti, non sono un contenitore molto adatto per meringhe e bignè, anche questa è una grande lezione di vita e, proprio per questo, quando oggi compro le paste, non obbietto affatto se me le mettono in un vassoio.
Capitavano anche giornate molto più calme, giornate dove la nostra voglia d’avventura veniva sostituita dalla passione che Massimo aveva per le marionette. A casa sua organizzava spettacolini per tutti i ragazzini della via. Suo padre lo odiavo, aveva trasformato l’unico prato in un  parcheggio dove una serie di box offriva alloggio a pagamento ad automobili laddove ci distendevamo a mangiare “pane e vino”. Di quell’erba acidula porto un ricordo ahime! irripetibile, dove vivo ora non c’è, al solo pensarla mi si forma l’acquolina in bocca.
Le giornate di pioggia spesso le passavamo in una sorta di granaio dove viveva la Cecilia, lei non usciva mai dal suo ghiaioso cortile, quindi noi le offrivamo la nostra solidarietà dandole compagnia, a ricordare bene, solo quando pioveva però; forse non era proprio solidarietà.
Del ponticello che scavalcava il canale per portare in via Alluvione, porto anche un ricordo brutto, una ragazzina di poco più grande di me, andò a sbattere con il manubrio contro il parapetto di ferro, una delle due maniglie gli si infilò nel fianco. Dopo parecchio tormento se ne andò lasciando sole le sue due sorelle gemelle che, anche se di un anno più grandi, (ah! quanto sono più grandi, a quell’età, quelli che hanno un anno in più), spesso facevano parte della banda di via Pariani.

Nella prima fotografia ci sono io in quello che era il prato che accolse le rimesse. Anno 1966/1967.
Nella seconda fotografia Marida e Carlo Gasparoli con la loro mamma. La fotografia è un dono di Marida. Anno 1964


venerdì 7 febbraio 2014

Da una vecchia fotografia - L'Albero sul quale mi arrampicavo


Googlemaps l’ho usato per cercar di trovare l’albero sul quale mi arrampicavo, a Gravellona molti ce n'erano, cachi, ciliegi e meli, ma quello di cui racconto aveva un posto particolare nei momenti di ricercata solitudine.
In fondo a via Alluvione, una sbarra bloccava l’accesso ad un prato nel quale, più o meno legalmente, riversavano rifiuti d’ogni sorta. Questo non ci fermava dall’esplorare tra gli scarti, ogni tanto si trovava qualcosa che incuriosiva.
Quel prato lo chiamavamo “ilpratolàinfondo”. Dalla sbarra in poi si allargava fino a che ti potevi, a destra, affacciare dall’argine sullo Strona. L’argine era costituito da enormi massi che rendevano la sponda liscia, ma trovavamo sempre qualche fessura alla quale aggrapparci per scendere, altri enormi massi, distribuiti alla rinfusa, fungevano da frangiflutti e tra essi pescavamo avannotti immergendo semplicemente una tanica nelle pozze. Si andava là anche perché il torrente, acchiappato un pallone sfuggito al controllo di chi giocava vicino alla riva, lo Strona lo metteva in una continua, frenetica rotazione laddove non trovava più la via verso il Toce. Io e il Luigino che in quanto a scaltrezza non ci batteva nessuno, scendevamo e ce ne impossessavamo, anche di più d’uno alla volta.
Sulla destra del pratolàinfondo, un muro fungeva da cortina, ci separava da una lunga fossa nella quale, la “Legatoria”, buttava gli scarti di lavorazione. Lavorando per una nota casa editrice, vi trovavamo interi fogli di figurine appartenenti alle varie collezioni, ci era sufficiente acquistare l’album e la collezione la finivamo velocemente, però, ogni figurina, prima di poter essere attaccata all’album, richiedeva un certosino lavoro di forbici, ma il tempo, a ben vedere, non ci mancava.
Dopo la Legatoria, una strada ripartiva verso sinistra fino ad incrociarsi con via Marconi, dirimpetto, dall’altra parte dell’incrocio si andava al vecchio stadio al di fuori del quale, enormi cataste di tronchi, attendevano il loro turno prima di entrare in una segheria. A volte lo spazio non era sufficiente quindi venivano accatastati a ridosso di un altissimo albero, ora in quel punto, se non erro, un megaparcheggio fa capire che di quell’albero non è che qualcuno si importasse molto.
Per me invece, diventava veliero. Usando i tronchi distesi uno sull’altro come fossero una scalinata, potevo arrivare ai rami più bassi e da lì andavo più su, sempre più su; sceglievo il ramo più comodo e, schiena appoggiata al tronco, facevo penzolare le gambe. Meraviglioso diventava quel veliero quando il vento si impossessava delle sue fronde, dondolava in modo che da terra era impercettibile, ma, lassù, le farfalle nello stomaco svolazzavano gaie fino a che non mi abituavo. Quando mi abituavo? Cercavo la stessa sensazione salendo ancora, e ancora, probabilmente, se avessi continuato a vivere a Gravellona sarei ancora lì a cercar di salire oltre. Ovviamente questo non è stato possibile: me ne sono andato e han buttato giù il veliero.
Quello che oggi si potrebbe mirare dalla coffa del veliero, guardando verso lo Strona, è ciò che si vede nella foto qua sotto, il resto lo risparmio a chi legge.

La prima volta che ho avuto a che fare con i Carabinieri è stato proprio nella fossa delle cartacce della legatoria. Io e Luigino, intenti a cercare cose utili, non ci accorgevamo che due Carabinieri arrivarono vicino a noi urlando un deciso e perentorio: Fermi! Solamente dopo  averli visti li scoprii indossare solamente i calzini, evidentemente le scarpe avrebbero prodotto quel rumore che solitamente mette in fuga i criminali.
Fermi! 
Col cavolo. Cominciai a correre, con una spinta da sotto aiutai a conquistare la sommità del muro a Luigi che era più bassino di me ma questo mi attardò quel tanto che bastava al sopraggiungere del militare.
Fummo condotti in caserma, il Luigi, infatti tornò lealmente indietro. Dalla caserma chiamarono mio padre Appena giunse, senza sentir ragione alcuna, mi mollò una papagna che ricordo benissimo. Scoprimmo solo successivamente che la presenza dei militari era dovuta ad una denuncia fatta dall’azienda per la scomparsa di alcuni scatoloni contenenti enciclopedie. I ladri avevano avuto accesso allo stabilimento semplicemente sollevando un lembo di lamiera che ne costituiva le pareti.
Venimmo ovviamente rilasciati, non senza la promessa di mio padre di una più severa sorveglianza nei confronti dei due monelli.
In un’altra occasione, quel luogo divento punto d’avventura.
Dall’altra parte di via Marconi, vicino alla “Pineta”, c’era una rivendita di materiale per l’edilizia.
Poteva mai quel luogo scansarsi la nostra visita?
Giammai. Una volta trovammo un blocco unico di polistirolo, mai più ne vidi in vita mia di così grandi.
Grande ma estremamente leggero, io davanti, Luigino dietro, appoggiato il blocco in testa arriviamo fino al torrente. Acceso un fuoco, con i tizzoni cominciammo a scavare il blocco, doveva diventare la nostra barca e lo divento, ma il metodo del fuoco per lo scavo venne abbandonato quando ci rendemmo conto che il polistirolo, bruciando, diventava duro e in alcuni punti, tagliente. Finimmo l’opera con bastoni e pezzi di vetro, nascondemmo tra i massi la barca ripromettendoci che il giorno dopo sarebbe stata campale.
Molti giorni passammo con quall’artigianale natante fino a che un giorno vedemmo dei pescatori che, montati sopra, arrivarono fino al Toce armati delle loro canne.
Non trovammo più la “barca”.
Alla fine del pratolàinfondo c’era un boschetto di robinie, una delle mete delle nostre giornate; nascosta tra gli spinosi, piccoli tronchi, c’era una baracca ma mai utilizzata, era un gabinetto puzzolente.
Altre ne costruimmo noi.
Al limitare del boschetto un allevamento di mucche e un campo di mais che, arrivato a quella maturazione che donava morbidi grani, diventava luogo ove far spesa. Alcune pannocchie, un fiammifero e un po’ di legna: altro meraviglioso modo di passare le ore.
Via Pall e gli scritti di Samuel Langhorne Clemens, raccolti in splendidi libri, io li ho vissuti.

A ben vedere, dall’età della ragione, ho vissuto a Gravellona Toce veramente pochi anni, mi domando:- Ma quanto erano lunghe quelle giornate? Trovavo anche il tempo di abbuffarmi di libri, sia quelli classici per ragazzi che quelli che leggeva mio padre, ricordo ancora oggi il primo libro da adulto che lessi: “centomila gavette di ghiaccio”, era più grosso di me come quelli di Leon Uris, ma con loro ho viaggiato il mondo quanto oggi si fa con googlemaps.

Da una vecchia fotografia

La foto ci ritrae in quinta elementare, sono nato nel 1962, per scoprire a quale anno risale, l'operazione aritmetica da svolgere è semplice.
La prima media mi piacque così tanto, ma così tanto, che volli ripeterla due volte.
Ricordo che il primo giorno di scuola della seconda volta che iniziai la prima media entrò in classe il professore di matematica, Di Caprio che avevo avuto l’anno precedente, dicendo a tutti che, anche se aveva acconsentito anche lui alla bocciatura, riteneva che fossi un ragazzo meritevole però, per il mio bene, era meglio che ricominciassi daccapo.
Va bene, non mi è mai pesato; altre cose presero il sopravvento sul mio desiderare le modalità del percorrere la mia esistenza.
Da quando ho ripreso i contatti con alcuni coetanei, lasciati più di mezza dozzina di lustri fa,  ho comunque compreso i danni arrecati ad un bimbo da una bocciatura, primo fra questi il cambio di passo con i coetanei fin lì frequentati.
Probabilmente se non avessi dovuto abbandonare i lidi dell’infanzia, il tempo perduto avrei fatto tempo a recuperarlo; felice di vivere dove sono ora mi crogiolo tra vecchie conoscenze utilizzando un social net-work.
Finalmente, dopo anni di ricerca, trovo grazie ad un caro amico, una fotografia di quando frequentavo la quinta elementare e con lei volti che nella memoria mai erano mutati, vantaggio dato a chi non rivede frequentemente le medesime persone.
Nella mia memoria, alquanto labile solitamente, Daniele Cazzoni e Andrea Zoni sono identici a come appaiono nella fotografia, chi, invece, ha avuto modo di osservare buzzi aumentare o alopecia contornarsi di grigio, la differenza la nota, eccome, tanto da non riconoscere amici e amiche.
Nella fotografia rivedo William Minuzzo: con dieci suoi fratelli era il compagno di giochi con la famiglia più numerosa. Con lui e alcuni suoi fratelli più grandi, passavo interi pomeriggi a sfrondare alberi che l’Oscar, a colpi d’ascia, aveva abbattuto. Noi due, più piccoli e di molto, più che una roncola non meritavamo, il buttar giù tronchi era forse ritenuto troppo pericoloso, mentre una roncola più che un’amputazione non poteva provocare. Nonostante la fatica, le ore passavano piacevolmente e non vedevo l’ora che ridiventasse pomeriggio per tornar nei boschi sopra Gravellona, verso Casale.
Rivedo, in quell’immagine, volti che appartenevano talvolta alla banda nemica, una banda di ragazzi che in talune occasioni meritava solo sassate per il solo motivo che erano “di là del ponte”, allora non sapevo, che anche noi “di qua del ponte” eravamo considerati “di là del ponte” e che per il medesimo motivo meritavamo analoghe sassate; era così che Maurizio, solamente perché abitava oltre lo Strona diveniva un “aldilàdelponte”.
Gli stessi ragazzi, più spesso, diventavano compagni giochi e di avventure lungo quello stesso torrente che li divideva solo  geograficamente.
Lo Strona, forse perché ci abitavo a ridosso, era il mondo che ci accoglieva quasi tutti i giorni.
D’estate accoglieva i nostri corpi in cerca di fresco, in un punto vicino casa, nella “lanca di bavagnoi” rallentava sensibilmente la sua frenetica corsa, tanto da formare una pozza. Attraversavamo i circa sei metri di profondo ristagno per issarci su una inclinata roccia che pareva nascere da sotto un muro di contenimento che, dall’altra parte, accoglieva cortili e case; sulla sinistra la roccia si impennava fino a raggiungere un’altezza, visto che eravamo tra i più piccoli frequentatori, sembrava irraggiungibile o dalla quale, comunque, non ci si poteva tuffare se non si diventava almeno giovanotti. Però, quando giovanotti si diveniva, la roccia diventava piccola e l’azzardo vero lo si poteva immaginare pensando di tuffarsi dal muro più in alto, cosa che puntualmente, con gli anni, si arrivava a fare per davvero.
Gravellona era terra di lucidatori di caffettiere, anche il mio quattordicenne fratello si cimentò in questa illuridente pratica; dopo il bagno post-lavoro, la famosa riga intorno alla vasca, era formata da una crosta spessissima. Per evitare questo, già ai primi caldi, Pietro e Bruno salivano sulla roccia per insaponarsi in un modo veramente elaborato, subito dopo, un bel carpiato li portava nell’acqua del torrente, sciacquandoli prima di una seconda intensa insaponata. Il problema lo avevamo noi più piccoli, primo in quanto l’attesa per il nostro turno di tuffi diventava veramente lunga, secondo perché quell’insaponata rendeva tremendamente viscido il punto di slancio, questo, ovviamente, non ci faceva desistere, anzi, faceva aumentare la quantità di adrenalina nel sangue, anche se solamente ora comprendo che era questa a far venire l’affanno senza aver fatto sforzi prima del tuffo, un eccitante prodotto del nostro corpo che è padre di tutti i gesti irresponsabili compiuti dai ragazzi.
In quel fermarsi dello Strona cominciai a bagnarmi sin da piccolo, in un’occasione un amico dei miei genitori, Jadis (si scrive così?), mi trasse da morte quasi sicura, letteralmente per i capelli; a mio padre l’acqua arrivava alla vita, il fatto che i miei fianchi fossero una quarantina di centimetri più in basso era una sottigliezza che non mi fece comprendere che anche la mia bocca fosse tanto più in basso, infatti, cominciai a bere e ad affondare fino a che, appunto Jadis, mi salvò.
Mai scorderò quelle giornate accompagnate da musiche che mangiadischi colorati riversavano nell’aria: “Azzurro” di Celentano era una colonna sonora fissa anche di schiumate fatte con la saponaria che arricchiva le sponde e di brocche d’acqua valorizzata da polverine all’arancia, spesso unico lusso alternativo alle bibite gassate di note marche, l’unico svantaggio dell’esposizione di quei liquidi, era dato dall’assalto dei tafani, insetti di cui occupavamo il campo, dal morso tanto doloroso da somigliare ad una martellata.
Una vecchia foto, quanto smuove tra le volute del cervello? Ho visto Franco che si faceva il bagno in un bacile perché l’antico gabinetto non prevedeva la vasca. Ho visto Pinuccio al quale somigliavo, più per la sporgenza d’ossa che per una similitudine di fisionomia, tanto che spesso ci scambiavano per cugini; ho visto sua sorella Cinzia che portandola sul portapacchi posteriore di una mia “Graziella”, ormai priva dei freni di serie ma fornita di un sistema rallentante dato dalla pressione delle mie scarpe direttamente sulla ruota. Non so se per mia imperizia o se per un azzardo monoruotesco, la mora sorellina di Pinuccio, scartavetrava con il mento alcuni metri d’asfalto tanto da doverglielo cucire (il mento, non l’asfalto), ricordo anche suo padre Ciro, ovviamente imbestialito, che dal suo balcone al primo piano mi urlava il suo disappunto gridandomi: “ma sei proprio un macaco”.
Poi vedo Andrea, abitava nelle case popolari di via Liberazione, sulla destra dopo il sottopasso della ferrovia, lui e la sua abitazione collegano i ricordi a Tonino e Gianni, fratelli casertani di poco più piccoli, Tonino era compagno di mio fratello Marco, anche loro abitavano in quel complesso; in quanto a “dispresi”, competevano sicuramente con me e il Luigino, all’Andrea  volevo un gran bene, in qualche modo il suo ricordo si collega alla Svizzera.
Altri fuoriescono da altre fotografie, fotografie nelle quali non avrei potuto esserci, non solamente perché non cacciavo la mia quotaparte per entrarne in possesso, ma perché ritrae ragazzi di altre sezioni o di altre annate, a quelle mi collegano ragazzi a me maggiormente vicini per età, mi lega mio fratello Marco, di poco più di un anno più giovane.
Con Walter poi, amici nemici costanti, trascorrevo giorni di spasso senza sosta alternati a litigi fatti anche di scazzottate, una in particolare ricordo, quando affermò di essere fidanzato di una nostra compagna e io, offeso più che mai, da quando avevo sei anni mi ritenevo l’unico “uomo” di tal donzella, presi questo fatto come un’onta grave assai, tanto che, avvinghiati a terra, non pochi sforzi fecero le maestre per separarci. Anche con il di lui cugino feci a botte, Giampiero: stavamo scavalcando contemporaneamente la stessa ringhiera quando, non ricordo perché, cominciammo a menarci con la mano libera mentre l’altra continuava a stringere la sbarra sulla quale ci stavamo arrampicando. Che spasso, e poi via a giocare a calciobalilla, magari formando la medesima coppia.
In via Marconi, subito dopo il negozio di frutta del Walter, c’era una prato che, all’improvviso, un giorno accolse camion e ruspe. Dovevano scavare un fosso che avrebbe accolto le fondamenta di un costruendo palazzo; ci andarono a vivere, una volta ultimato, tra gli altri, la Gabriella e il Severino nonché il dentista che un ossimoro ospitava nel cognome, si chiamava infatti Caramella, già il nome faceva venire le fitte da carie, ma tant’è.
Sui bordi dello scavo si andava accumulando la terra di risulta, quale campo di battaglia migliore si poteva presentare per i nostri giochi? Si cominciava con il tirarsi, senza alcun riparo, piccoli grumi di terra, si arrivava poi a tirarcene di più consistenti fino a che, qualcuno colpito in modo particolarmente preciso, si chinava per trovare proiettili più consistenti di quelli friabili fin lì usati, e i sassi, erano sicuramente più consistenti, infatti procuravano lividi e bernoccoli degni di nota, nonostante, a quel punto, quei cumuli, ci offrissero riparo, i tiri ad ogiva raggiungevano il bersaglio dall’alto
Antonio invece, anni dopo lo trovai a gestire una pizzeria, destino che per un po’ lo accomunò a Pietro che pure lo vedeva impastare pizze in famiglia. Pietro, dopo tanti anni, grazie ad internet, lo portò a diventare la guida di mia moglie e me; durante una vacanza con lui concordata, insieme a sua moglie Cinzia ci accolse come se fossimo stati parenti dai quali mai si era staccato.
Daniele poi, più grande e più grosso di tutti noi, era tanto imponente quanto buono, per quanto un bimbo possa essere imponente, eppure, ai nostri occhi lui era grandissimo.
Miranda? Una spilungona, ci sovrastava tutti di parecchi centimetri, Competeva solamente con Patrizia, una moretta “dilàdelponte” mentre Lorena era una carina bimba molto, ma molto magra.
Doriana viveva nello stesso condominio dove abitava il Luigino, il mio più caro compagno di giochi e scorrerie. Biondina e simpatica, veniva dal veneto e non sarebbe riuscita a celare questa sua provenienza nemmeno impegnandosi, l’inflessione che  aveva il suo parlare era alieno a noi quanto quello di uno straniero: solo a scuola si parlava in italiano, fuori si usava il dialetto o, quantomeno, un modo di proferire le parole decisamente caratteristico, come caratteristico è ogni parlare in Italia; bastano pochi chilometri, a volte metri, per parlare lo stesso dialetto ma in modo diverso.
Luigino. Meriterebbe un libro solamente il descriverlo. Non eravamo nella stessa classe, penso addirittura che questo non fosse affatto casuale; il tenerci distanti, almeno durante le lezioni, ha prolungato l’esistenza stessa del pianeta, allora però, la ritenevamo un’ingiustizia.
I  pomeriggi, che fossero invernalmente brevi o colmi del sole d’estate, ci vedevano comunque inseparabili; i compiti non erano un problema, o non li facevamo oppure li svolgevamo in modo scelleratamente superficiale, importante era correr per prati o scivolare sulla neve (allora era abbondante). Con il suo piccolo Rocki, incrociavamo ogni via e ogni vicolo di Gravellona, di qua e di là del ponte; in via Stampa o a Pedemonte; Santa Maria o Canton w, nessuna zona del nostro amato paese era esente dalle nostre marachelle. Frutta rubata, visite a cantieri di case in costruzione, cantine e garages incustoditi, tutto era luogo d’avventura.
Porto ancora molte cicatrici di quel tempo, una serie me la procuraria scendendo con la slitta dalle parti di Pedemonte, nei pressi della casa di un’altra numerosa famiglia, di questa il mio coetaneo era Maurizio. Ebbene, con Luigino salivamo per una strada priva d’asfalto per poi scivolare verso la strada che si trovava più a valle; forse a causa della fatica prodotta dalle ripetute salite, il controllo della slitta mi divento ad un certo punto, difficile. Ad una curva uscii di strada cadendo al di là di un reticolato posto sulla destra.
Una frazione di secondo e mi trovai a testa in giù, sullo scosceso pendio, una gamba avvolta dal filo spinato che, non so quanto provvidenzialmente, fermo il mio cadere lasciandomi, a imperituro ricordo, piccole cicatrici di fori intorno al ginocchio. Me ne accorsi solamente arrivato a casa, spesso quando mi facevo male, a casa dovevo scollare il pantalone dalle ginocchia o la camicia dai gomiti, quella era semplicemente una tante.
Un’altra occasione per cui mi dovetti scollare il calzone dal ginocchio, fu quando, buttandoci dal balcone di un palazzo in costruzione, usavamo  come ammortizzatore un cumulo di sabbia che sarebbe dovuto finire in una betoniera per diventar cemento. Cosa successe? Il continuo saltare, ad un certo punto, spianò quasi completamente quella montagnola, limitando sensibilmente la sua salvifica presenza, tanto che i miei incisivi si piantarono nel medesimo ginocchio di cui sopra. In quell’occasione il danno fu grave: i denti davanti diventarono mobili e dondolavano avanti e indietro quasi senza ancoraggio, mentre il ginocchio, colmo di invasivi batteri di cui solitamente poco mi curavo, presero il sopravvento procurandomi un’infezione che gonfiò come un pallone la maltrattata giuntura. Molti giorni passai a letto, con interminabili impacchi di acqua e sale, evidentemente gli antibiotici offrivano un riparar troppo lento, qui intervenne l’esperienza, più empirica che medica, dello Zilocchi che, oltre alle iniezioni, mi impose quest’altro supplizio.
Sul Toce, dove ora insiste lo svincolo dell’autostrada che ha portato alla ribalta la nostra città, (famosa è ormai, alla radio, la descrizione di ciò che avviene sulla “Genova, Voltri, Gravellona Toce”), c’era una cava di sabbia estratta dal fiume dove i cumuli, formati dai camion che man mano vi salivano, raggiungevano altezze ragguardevoli. Li salivamo e, prendendo adeguata rincorsa, ci tuffavamo lungo la sciara, obiettivo? Volare il più a lungo possibile. Si facevano salti di parecchi metri, l’atterraggio era comunque morbido, a volte si affondava nella sabbia con tutte le gambe, ci si liberava faticosamente e altrettanto faticosamente si risaliva la china fino a conquistar la vetta per un nuovo volo. Quando si tornava a casa svuotavamo mutande, scarpe e tasche da chili di sabbia, negli anni avremmo potuto accumulare una denuncia per appropriazione indebita, ma quei salti, insieme alle risalite, nonostante ci facessero produrre acido lattico da non sentir più le gambe, erano quanto più vicino al volo umano fosse possibile. Impagabile anche il solo ricordarli.
Di quella foto ricordo anche Saverio, abitava lungo via Liberazione, quasi a giungere a Pedemonte, se non sbaglio, proprio nell’interrato di quel condomino, presi il primo contatto con il mondo della grafica. Mio padre realizzava disegni per quelle che dovevano diventare matrici serigrafiche e sotto a quel palazzo c’era una serigrafia, appunto, dove realizzavano anche fustelle. Ora ho un’azienda che fornisce servizi alle tipografie, tra questi servizi vi è anche il fustellare.
Si passa poi oltre il margine della fotografia cadendo in altre e in altri ricordi, chissà se avrò l’opportunità di vedere una che mi ritrae con la prima classe con la quale frequentai la prima media.
Applicazioni tecniche era insegnata con la distinzione di genere, antico rimasuglio di una separazione, nelle scuole, tra maschi e femmine: il Violini era il prof dei maschi mentre la Rocca insegnava, se ricordo bene, economia domestica o qualcosa del genere, alle femmine.
C’erano poi la Tartarini di francese e una certa Clelia, di cui non ricordo il cognome ma ricordo che era ligure, insegnava italiano e latino. Il già citato Di Caprio era il mio preferito, ricordo la bella persona e la sua materia, matematica. Altri non me ne vengono in mente se non la Visentini, insegnante, nella seconda prima media, di italiano il latino diventò materia facoltativa proprio in quell’anno, aderimmo come volontari solo io e mio fratello, non per eccesso zelo ma su indicazione di nostro padre: finimmo non classificati, il fatto che fosse volontaria la frequenza non incise sul risultato finale. Nota era la frase di rimprovero che ripeteva la Visentini: “Taci tu e pensa ai fatti tuoi che già son tristi”.
Di quella prima, prima media ricordo Franco, un ragazzo di Granerolo, un piccolo paese al quale si giungeva, oltre che deviando dalla statale che porta ad Omega, anche percorrendo anche una strada di montagna che partiva dal “Motto” e che entrava in paese in modo inaspettato, almeno per me quando la percorsi la prima volta.
Un giorno, nel cortile, forse dopo una caccia ai maggiolini, mi avvicinò Elena con l’esposizione della  sentenza di un’espressione di voto nata tra le ragazze: ero stato eletto il ragazzo più bello della scuola, non voglio entrare nel merito di tale giudizio, si trattava comunque di ragazzi poco più che decenni, però essendo successo in presenza di altri compagni, la vergogna mi travolse tanto da vedermi diventare rosso fuoco. A me sarebbe bastato che questo giudizio giungesse da una ragazza in particolare, essendo lei già in terza media, era molto ma molto più grande, quindi, irraggiungibile.
Altro non ricordo ma sono convinto che se vedessi altre fotografie di quell'epoca e di quelle classi, riuscirei a costruire altri collegamenti.
Attendo.