venerdì 11 ottobre 2013

Appoggiato ad un bastone

Ho letto:
Ma perché solo i paesi così detti CIVILI...si devono sempre calare le braghe...il reato di clandestinità esiste in tutto il mondo!!! ! noi dobbiamo essere un'eccezione??? Spiegatemi il perché per favore...

Secondo me, laddove per giungere clandestinamente in un paese, basta percorrere a piedi il punto di confine, è giusto regolamentare questo movimento appunto per la semplicità d'agire e anche in quanto più semplice porre dei punti di controllo. Se per entrare nel paese in questione, invece di percorrere una normale strada con un normale posto di controllo, passi attraverso campagne e sentieri secondari, sai che stai compiendo un illecito quindi, sai di sottoporti al giudizio di chi gestisce le regole del paese in cui vuoi entrare.
Per quanto riguarda l'Italia, di clandestini che cercano di entrare attraverso le Alpi ce ne sono talmente pochi che non sarebbero nemmeno un problema da regolamentare in modo particolare.

Ragazzi che vivono guardando i propri animali, in mezzo ad una savana, con un piede poggiato sul ginocchio dell'altra gambe, sostenuti da un bastone al quale stanno praticamente appesi con entrambe le mani; che vedono lo scheletro degli animali che custodiscono a causa del poco nutrimento e della disidratazione dovuta all'inquinamento della poca acqua a disposizione. Inquinamento dovuto dallo sfruttamento di miniere perpetrato da occidentali senza scrupoli che nel proprio paese quelle stesse metodologie di estrazione, per quanto ben remunerative, non le adotterebbero nemmeno se costretti perché consci del danno che arrecherebbero. 

- In Europa cercano ragazzi volenterosi come te, che ci stai a fare qua, se riesci a procurarti duemila dollari ti ci porto io. Disse un tizio che si era fermato con un fuoristrada, un attimo, il tempo di rinfrescarsi un po’.
- Ma io dove li prendo duemila dollari, per me sono troppi.
- Ma che ne sai! Gli europei per venire in vacanza qua spendono più di quattromila euro, io con la metà dei soldi ti faccio fare lo stesso viaggio.
Quel ragazzo, a questo punto, torna al villaggio e racconta che un uomo gli offre l’opportunità di andare in Europa e che se lo fa veramente, una volta giunto là, guadagnerà soldi abbastanza da mandare a casa, tanto senza molte pretese è comunque la sua vita, quindi, riuscirà a risparmiare molto.
L’intero clan, se non tutto il villaggio, racimola il denaro necessario.
Il ragazzo parte, cominciando il viaggio nel cassone di un camion che, dando le spalle al villaggio, si infila perpendicolarmente nel deserto. Durante il viaggio che gli è stato detto durerà poche ore,  raggiungerà la tale oasi dove potranno sistemarsi meglio.
Le ore passano e l’oasi nemmeno si avvista, qualcuno dei passeggeri comincia ad indispettirsi, l’arsura e la sete non favoriscono in tutti la calma, vien chiesta una sosta. Durante la fermata alcuni passeggeri discutono con l’autista e con il suo compare. La discussione si fa rissa, esce una pistola da una tasca e parte un colpo. Silenzio.
L’autista urla: E adesso non mi rompete più il cazzo altrimenti vi lascio tutti qua, salite in quel cazzo di cassone che ce ne andiamo.
Il ragazzo sale sul camion e, seduto sulla sponda, guarda indietro, l’orrore di quel corpo sporco di sabbia rossa, che ancora muove spasmodicamente un piede non è sufficiente a fargli pensare di ripercorrere a ritroso, e a piedi, le ore e ore di strada percorse a bordo dell’autocarro.
- Però, veramente ha esagerato ad incazzarsi così con l’autista. Pensa
Ancora ore di camion e l’acqua che qualcuno si è portata appresso sta finendo, se si pensa che molti nemmeno se la sono portata, il problema diventa veramente grandicello; poca acqua, tante persone, troppo caldo.
Uno batte forte le mani sulla cabina del camion con l’evidente intenzione di farsi notare dall’autista, il ragazzo che sta seduto nel cassone vicino a lui ha la bava alla bocca e degli occhi si vede solamente il bianco.
Il camion si ferma, l’autista, con una grossa chiave ricurva già in mano e con un atteggiamento che poco sembra pacifico comincia ad urlare, il ragazzo che batteva sulla cabina urla qualcosa.
L’autista continua ad urlare e dice a chi l’ha chiamato di scendere insieme a quello che sta male.
Scendono.
L’autista risale e riparte, nemmeno aveva spento il motore, il ragazzo sceso si aggrappa allo sportello e il compare dell’autista gli schiaccia, contorcendosi sul sedile, le dita che lo tengono attaccato all’unico mezzo che lo può portare fuori dal deserto.
- Non ti preoccupare, tra poco passa un camion più vuoto. Grida l’autista.
Il ragazzo seduto sulla sponda si gira nuovamente per guardare i due rimasti a terra, quello che sta male disteso a terra, quell’altro piegato, con le mani sulle ginocchia e con un evidente fiatone, ha lo sguardo puntato sui propri piedi, rassegnato.
Il ragazzo giungerà sulla riva del mare dove deve prendere la nave che lo porterà in Europa.
La nave non c’è, nemmeno riesce a vedere dove potrebbe attaccare, mai ne ha vista una dal vero me gli riesce impossibile immaginare che possa attraccare direttamente sulla spiaggia.
Cerca di dissipare questi dubbi domandando al compare dell’autista, che nel frattempo è scomparso, chiedendogli quando arriva la nave e come farà a salire a bordo.
- La nave arriva tra qualche giorno e si salirà a bordo raggiungendola con delle barche.
- Ma come qualche giorno? E nel frattempo che faccio? Dove vado a dormire e a mangiare?
- E che ne so io. Risponde l’altro. Sono cazzi tuoi. Insiste.
Ha cento dollari in tasca, nel suo villaggio l’intero capitale annuale di un’intera famiglia, quindi, sicuramente, qualche giorno lo riesce a scampare. Pensa.
Entra in un locale per mangiare una pietanza locale e per bere una bibita gassata. Quindici Euro gli chiedono.
- E in dollari?
- Uguale! Vabbè dammene tredici.
Rimangono ottantasette dollari. Pensa.Praticamente, mi sono mangiato, in un solo scarso pasto,  un mese del denaro che un’intera famiglia, al suo villaggio, ha a disposizione.
Arriva la nave, alcune barche si avvicinano alla riva, i rematori saltano in acqua e si avvicinavano alle persone in attesa dell’imbarco.
Il ragazzo sale su un barca.
- Dieci euro. Dice il rematore.
- Ma io il viaggio già l’ho pagato!
- A me nessuno ha dato niente. Risponde il rematore.
Il ragazzo scuce un altro mese di denaro che al suo villaggio un’intera famiglia ha a disposizione.
Si accostano ad una scaletta posta di traverso sul fianco della nave, le barche giunte dalla spiaggia, in una tumultuosa processione si alternano per far salire i propri passeggeri mentre chi, della nave, sta sulla scala per regolare gli imbarchi, butta a mare una persona ogni due o tre.
Il ragazzo cerca di capire, domandandolo al proprio rematore, cosa sta succedendo.
- Sicuramente non hanno i soldi per il viaggio. Risponde.
Rincuorato che non potrà succedere a lui la medesima cosa, comunque preso da un avvilimento sempre maggiore, vede le persone in acqua nuotare verso la riva, maldestramente, trascinando i pochi bagagli che vorrebbero affondare.
Finalmente tocca a lui.
Sale sulla scaletta e l’uomo che vi sta sopra tende una mano mentre con l’altra fa il gesto che internazionalmente vuol dire:
- Caccia i soldi.
Il ragazzo dice che sta tutto a posto, lui, il viaggio, già l’ha pagato a quello del camion.
- OK! Dice il tipo. Qua abbiamo un altro furbo.
- No! Ma quale furbo! Io il viaggio l’ho già pagato.
- Ragazzo tu hai pagato per un passaggio su un camion, ti sembra un camion questo. Dice incazzato indicando la nave. O scendi da te o ti butto a mare io.
Il ragazzo risale sulla barca.
Il rematore, allungando la mano dice: - Dieci dollari.
Rassegnato capisce l’antifona e pensando al denaro di tre mesi che una famiglia, al suo villaggio, ha a disposizione, lui li ha spesi in due giorni, l’intera vita gli passa davanti agli occhi, come a chi sta annegando o comunque sta vivendo gli ultimi istanti della propria vita.
Il suo piede destro appoggiato al ginocchio sinistro. L’ombra di una sfogliata acacia. Appeso con entrambe le mani ad un bastone un po’ più alto di lui.
Giunge a terra e pensa ai sessantatre dollari che gli sono rimasti e cerca di fare un calcolo di quanti giorni potrà mangiare. Pochi.
Entra in un bar e chiede a uno che ha proprio l’aspetto di un traghettatore del deserto, camionista, se sa quanto costa il viaggio in nave.
- Mille dollari, conosco uno che organizza questi viaggi, hai i soldi.
Il ragazzo si gira mentre il tipo butta la mano indietro sopra la testa dicendo:- Ma va! Va!
Va dal barista e pronunciando il nome del proprio villaggio chiede se sa quanto tempo ci vuole per raggiungerlo.
- A piedi. Dice il barista ridendo e guardando con tono di sufficienza il collega dietro al banco.
- Si, a piedi, sono un buon camminatore, io.
- Un mese. Un mese e mezzo se conservi per tutto il viaggio la forma fisica che hai in questo momento, altrimenti, se questa forma non la conservi, dipende da quanto resisti e comunque, non penso che riesci a raggiungerlo. Continua prendendo un’espressione sinceramente seria.
- E se lo faccio con un camion quanto mi costa il viaggio?
- Quanti soldi hai? Domanda il camionista al quale aveva chiesto informazioni.
- Nove mesi di denaro che un’intera famiglia, al suo villaggio, ha a disposizione. Risponde rassegnato il ragazzo.

lunedì 7 ottobre 2013

Un polentone a Minturno


Non era la prima volta che entrava nella stazione di Milano, era la prima che lo faceva da solo; riempiendola con tutta la famiglia o con qualche suo componente, si rimpiccioliva. Solo, si sentiva piccolo, le volte di vetro e acciaio erano per lui appena un poco più basse del cielo, lontano, gli archi si aprivano sull’infinito come se stesse guardando da dentro un’astronave con i portelloni aperti.
Il treno lo avrebbe portato giù, raggiungeva luoghi da dove provenivano tanti suoi compagni di scuola e dove andavano ogni estate, tornando a riempire le ottobrine aule con abbronzature che a Gravellona era quasi impossibile raggiungere.
Doveva andare  dal padre da poco trasferito: traversie familiari lo allontanarono; il lavoro lì lo aveva accolto. Dopo alcuni mesi l’intera famiglia seguì la strada tracciata dal quindicenne radunandosi nuovamente, anche se per pochi anni ancora, le traversie ritrovarono il passato vigore disperdendo nuovamente i vari appartenenti, anche nei sui componenti più piccoli nel frattempo cresciuti.
Minturno? boh! dove sarà mai?
Gli dissero: - E’ vicino a Gaeta.
Vabbè! Ma Gaeta dov’è?

Si,  sul mare, questo lo sapeva, la metteva sempre tra le Repubbliche Marinare salvo accorgersi poi che il conto arrivava a cinque, portandolo a nominarle nuovamente nella memoria e, dopo averle abbinate ai relativi stemmi, Gaeta rimaneva esclusa.
I suoi quindici anni avevano visto il mare solamente a Iesolo, con la nonna Afrodite e a Genova dove il padre doveva farsi visitare da un oculista l’occhio che più non aveva a causa di un maldestro affaccendarsi, aveva, di questo, il rosso ricordo di un bimbo di due anni.
Ore di treno e giunge a Roma; la città visitata in precedenza per andare a trovare zii paterni già era molto lontana da Gravellona ma il viaggio ancora non terminava, anche in quell’occasione vide il mare, a Ladispoli.
- Devi scendere a Formia, a Minturno non ferma. Gli fu detto
A Formia giunse che da poco le rotaie lo fecero avvicinare al mare come se tutti i settecento chilometri li avesse percorsi perpendicolarmente ad esso e non lungo la stivalesca costa.
Il padre era là ad aspettarlo, con una vecchia Mini bordeaux, da lì raggiunsero un mini appartamento sul retro di un albergo allora abbastanza malridotto, in una località ove oltre già non è più Lazio. Oggi, quell’albergo, non assomiglia più a quei ricordi, e vi giunge dopo una quindicina di chilometri percorsi con bocca e occhi spalancati dallo stupore dato dalla bellezza dei luoghi. Da allora cominciò a capire che bisogna apprezzare i propri luoghi anche se appartengono alla normalità.
Davanti all’albergo l’Appia, e dall’altra parte, ruderi che non comprese fino a che non li mise in relazione con ciò che gli avevano raccontato i sussidiari e i libri di storia. Un anfiteatro romano, praticamente intero, vero, circondato da un parco archeologico, vero; una piccola Pompei, vera.
Quel quindicenne, crescendo, girò non poco; la sosta più lunga a Cellole, una dozzina di chilometri più a sud.
Per arrivarci bisogna attraversare un ponte, dal quale, affacciandosi, se ne scorge un altro, borbonico, allora se ne potevano scorgere solo le colonne che sostenevano le catene che tenevano sospesa la parte percorribile, oggi anche questa ricostruita, non utilizzata per il traffico normale ma vero. Entrambi scavalcano un confine dalle molteplici peculiarità; confine tra de comuni, due province e due regioni nonché tra Italia del nord e Italia del sud e, durante la seconda guerra,  confine tra occupanti e liberatori, prendeva il nome di Gustav ma che in realtà già si chiamava Garigliano.
Quel ragazzo ora vive a Minturno con la moglie e due figli da vent’anni e più, vi giunse per una scelta fatta con la compagna. Proprio lì volevano far crescere i figli, a due passi dal mare, a due passi dai monti e lì i figli sono cresciuti, in piazza dell’Annunziata, dove le ringhiere ancora portano i segni della guerra ma dove in pace si sono fatti grandi giocando.
Più sopra c’è Traetto, la parte medioevale del paese; più sotto c’è Minturnae, la parte due volte millenaria.
Minturno, duemila anni di pensieri e fatti hanno accolto quel quindicenne e che gli hanno dato terra per radici che di anni ne hanno cinquanta e più ormai.

I figli, nel parlare,  hanno la cadenza di Minturno ma una propria ne stanno cercando. Stanno cercando la loro Minturno e questo, grazie a Minturno, che si versa sul mare, che si apre al mondo.