venerdì 22 giugno 2018

Pozzilli - giorno uno

Prima della discesa che viene dopo la galleria che precede l'ingresso a Venafro la visibilità è di pochi metri a causa della nebbia ma subito dopo, scompare, non che il cielo sia sereno ma, il suo azzurro, qua e là, si vede.
Dietro, il verde delle montagne attrae decisamente di più dell'ingresso alla clinica, nonostante tutto i mesi di sofferenza sono il giusto stimolo ad entrare, non prima di un caffè, di cui ricordo la bontà, preso in un bar.
Dopo aver chiesto cosa dobbiamo fare, ad un solerte stewart che, notando la valigia ci viene incontro, per iniziare le procedure di ricovero, ci sediamo pochi minuti in sala d'attesa.
Penitenti!
Sento chiamare, non ho bisogno di controllare, come fanno quasi tutti, se si tratta dell'invito ad un omonimo, con il mio cognome di solito non c'è nessun altro, quindi con la veloce lentezza che mi consente l'addormentato arto, mi avvicino al bancone.
Come in albergo inizio il chek-in, mi dicono dove recarmi e mi donano una scatoletta cubica di 10 cm. per lato e una tovagliette usa e getta infilata in una busta trasparente. La scatoletta contiene altre tre scatole nelle quali ci sono: una cuffia da doccia (l'avessi saputo non avrei tagliato la fluente chioma); cotton fioc e bustine di sapone liquido. Vi sono, inoltre, tre mini bottigliette contenenti liquidi per il body.
La prima visita mi viene fatta dalla caposala del reparto di neurochirurgia che comprende il riempimento di una decina di fialette dai tappi colorati, con un rapido gesto, alternano il loro infilarsi in una siringa che già si è appropriata della compagnia di una vena del mio braccio.
Alcune piastrine adesive mi vengono appicicate su caviglie, braccia, torace e polsi per poi essere collegate con dei fili numerati all'apparecchio per l'ecg dal quale si srotola un nastro di carta sul quale uno zig zag rosso viene stampato; il mio cuore sta parlando con una lingua a me sconosciuta a persone che vedo per la prima volta e questo mi fa ingelosire non poco.
Prima di uscire mi viene chiesto di procurarmi il dischetto della risonanza magnetica e di consegnarlo al personale del reparto, quindi scendo ma ancora non è pronto, prima di tornare su facciamo colazionr alla bouvette.
Mi siedo mentre Silvy si procura due cornetti, per lei vuoto mentre il mio è sicuramente fornito dal reparto grandi ustionati per procurarsi un numero adeguato di pazienti, la crema, infatti, ha la temperatura dei fantozziani pomodorini al forno, trecento gradi fahrenheit. Lo apro e insufflandolo con la bocca spero di abbassarne la temperatura ma, un pezzetto si stacca e, rimanendo tra pollice e indice, permette al lembo opposto di appoggiarsi al labbro inferiore facendomi comprendere esattamente la temperatura dell'interno del forno, dal quale, testè è uscito.
Torniamo al piano e dopo pochi minuti un'infermiera, seguita da un codazzo precedentemente costituito al quale chiamato mi aggrego, ci conduce in un ascensore: piccolo ma ci entriamo tutti, tranquilli! Si appresta a dire, e continua: andiamo a fare le radiografie. Perché anche gli infermieri debbano fare le radiografie non lo capisco, le dosi quotidiane di irradiazioni non dovrebbero essere limitate. Infatti l'infermiera si trattiene con i colleghi e i raggi ce li becchiamo solo noi. Dopo averli fatti, mi guardo il petto ma non vedo nessuna x, forse sono trasparenti.
Di nuovo nel piccolo ma sufficiente ascensore, torniamo in sala d'aspetto, pochi minuti e mi chiamano da un altra stanza; è l'assistente del cardiochirurgo.
Come si chiama? blablabla.
Dove è nato? blablabla
Dove risiede? blablabla
Le domande sono retoriche, infatti, i blablabla li emette lui.
Bene, si accomodi sul lettino.
Alla mia velocità di crociera attraverso la stanza e l'accontento.
Esegue alcune manovre  con i miei piedi e con le mie gambe consultandosi, ad ogni manovra, con la collega seduta lì vicino
 Prima di farmi alzare chiede alla collega di farmi ripetere uno movimenti per la conferma di una denervazione, la conrfema, già visibile dall'elettromiografia, dal rapporto del tecnico che l'ha effettuata e dal medico che mi ha in cura, la fornisce anche lei: ho una denervazione ai muscoli esterni della gamba destra.
In due minuti mi spiegano perché e come verrà eseguito l'intervento, altri dieci li passano a dirmi i rischi che questo può comportare, in pratica, tra probabili infezioni, possibili ripetizioni dell'intervento a causa di una improbabile cattiva uscita dello stesso e possibili emorragie con annesse trasfusioni, l'ovvia conclusione sarebbe quella di tornare a casa. Il ricordo degli ultimi due mesi di dolori lancinanti mi fa pensare: ma quando buono buono, po' mai esse' peggio? quindi firmo il dissuasivo consenso informato.
 Per l'ennesima volta mi vien detto: Può andare.
 Esco e Silvy è già stata condotta nella camera che mi è stata attribuita. Da mamma esemplare si è già appropriata di armadio, comodino e mensola del bagno, con il contenuto della valigia che ha preparato già due settimane, da quando il neurochirurgo, visitandomi privatamente (nel senso che mi ha privato di una consistente, per me, quantità di Euri) disse che era necessario operarmi.
 Da quando sono uscito di casa sono passate più di cinque ore e finalmente mi sdraio sul  letto alleviando il dolore che fino a quel momento di era andato accumulando.
 Entra l'addetta alla mensa, espone il menù per il successivo pranzo e per la cena, a parte una pasta con verza, il resto mi sembra accettabile.
 Il primo pasto arriva dopo pochi minuti: pasta con le zucchine e rollè di tacchino con spinaci; mangio tutto, compresa la banana ma la pappa di popeye la rimando ai propinatori.
 Penitenti?
 Eccomi.
 Mi segua, visita cardiologica. Mi dice un'educata infermiera con il volto inespressivo di chi dice per la milionesima volta la stessa cosa.
 Il cardiologo fa scorrere lo sguardo sullo zig zag rosso che si dipana sul rotolino dell'ecg domandadomi: ha mai avuto problemi di cuore? È evidente che parla del muscolo quindi rispondo di no, arricchisco la risposta dicendo di essere donatore di sangue, quindi, ne ho avuto conferma negli ultimi quarant'anni anche se da due non dono.
 Si alzi la maglietta: è evidente che avrebbe voluto che io mi avvicinassi a lui ma, con sacrificale sforzo è lui ad avvicinarsi a me, ausculta:  può abbassarsi la maglietta. Buongiorno.
 Saluto l'emiciclo di persone presente dietro di me nella stanza ed esco.
 Silvana se ne va, dopotutto cosa resta a fare, si tratta di passare tre giorni nella noia totale prima dell'intervento.
 Pet tutte queste ore, un camion effettua retromarce in corridoio, un bibip continuo, arriva da fuori la stanza. Ovviamente non si tratta di TIR ma di un cicalino che suona dalla stanza adiacente alla mia con decibel veramente invalidanti. Ecco perché, nonostante il chirirguo mi avesse annunciato un'attesa di quindici giorni, nell'arco di ventiquattro ore mi hanno chiamato, la stanza dove sto, da solo, la possono dare solo a pazienti pazienti e la fama acquisita nel fare le file, deve essere giunta fin qui. Infatti, c'è da sapere, per comprendere quest'ultima mia affermazione, che quando mi appropinquo per prendere posto nella coda che scelgo nei supermercati, commesse e commessi: contano i soldi per il periodico alleggerimento della cassa; cambiano il rullino della cassa; si alzano per fare due passi sgranchenti gli arti; vanno in bagno o prendono un caffè.
 La conclusione che da tempo ho ormai tratto è che devo avere proprio un volto di chi ha pazienza da donare.
 Ore 19,30
 In stanza entra una ragazza dall'aspetto di chi è appena diventata maggiorenne e si presenta (nei prossimi giorni riferirò il nome che, come al solito, non ricordo) chiedendomi se ho la cannula.
 Mostro le braccia e torna ad uscire pochi secondi, si avvicina e, brandendo una siringa, mi porge una garza.
 Strano, mi dico, di solito è l'infermiera stessa a strofinare il punto da perforare.
 Il mio volto mostra evidentemente una certa perplessità perché la bimba, alzando e spingendo in fuori il mento, dice: prenda le pastiglie.
 Apro l'involto di garza e, effettivamente, contiene due pastiglie. Tra le iniezioni fatte negli ultimi due mesi e i buchi che mi hanno traforato le gambe per l'elettromiografia è già qualcosa che gli arti inferiori non si stacchino come l'ultimo lembo di carta igienica quindi, che mi stiano facendo un altro buco è per me quasi impercettibile, non sento l'ago cosi come, per l'annosa consuetudine,  non sento mutande e pantaloni una volta indossati.
 Ora, come i bonobo sull'albero, sistemo lo sconcicato letto e scrivo queste righe.
 Buonanotte.

1 commento:

  1. Come ti capisco Massmo, mi sembra di ripercorrere le giornate in ospedale lo scorso anno. Ti ho nel cuore, sei una persona speciale per me!

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