In uno dei soliti pomeriggi
di svago, il gruppo che si formò era particolarmente nutrito: non solamente da
me e da dall’immancabile Luigino, anche da mio fratello Marco e da qualche
altro buceta, la banda così formata partì alla volta di Dilàdelponte per un
assalto ad un ciliegio di cui già conoscevamo le doti.
Giunti che fummo sul posto,
cominciai ad arrampicarmi utilizzando quello che, nella mente del contadino,
doveva essere un deterrente proprio per chi voleva compiere quel tipo
d’impresa; aveva, infatti, avvolto di filo spinato tutta la parte bassa del
tronco dell’albero, senza sapere che per me altro non era che una
facilitazione. Avevo un fisico ossuto da somigliare ad un sedia sdraio e
l’agilità di un furetto. Salito sull’albero cominciai a mangiare, e a cogliere i
rossi frutti per i compagni che erano in attesa ai piedi del donatore.
Ad un certo punto sentimmo le
strilla del proprietario, correva alla nostra volta volteggiando un bastone a
guisa di lignea Durlindana. Essendo in alto fui il primo ad accorgermi del
“pericolo” quindi urlai a tutti di
scappare precisando: - Ci vediamo nel cortile del Giorgio! Io rimasi nascosto tra
le fronde, anzi, per meglio celarmi salii ulteriormente mentre l’urlatore
intimava a invisibili malandrini di scendere, pena chissà quale punizione. Lo
vedevo bene, a volte il suo sguardo incrociava perfettamente il mio tanto da
credere di essere stato individuato, invece, passati alcuni camaleonteschi minuti,
si dovette convincere che i monelli fossero scappati tutti tanto da indurlo ad
abbandonare il campo. Il tempo di vederlo allontanare quel tanto che mi bastava
per guadagnare il cancello, che saltai sul prato cominciando a correre all’impazzata.
Il contadino s’avvide del mio precipitare ma altro non potè che urlare d’avermi
riconosciuto, cosa che munì di ali le mie caviglie.
Al cortile del Giorgio si
accedeva da via Roma, al centro, un piccolo recinto delimitava un orto e la
libertà di qualche pennuto da uova e padella. Intorno, sui quattro lati, un
edificio con una balconata al piano rialzato: vi abitavano alcune famiglie,
quella del Giorgio, appunto, quella del Novellino e quella del Fabriziobalzani.
E’ simpatico notare come per alcuni compagni si usava solo il nome, per altri
il cognome e, per altri ancora sia il nome che il cognome. Fabriziobalzani, per
distinguerlo dai fratelli, lo chiamavo appunto con nome e cognome legati, il
fulvo Novellino di nome si chiamava Antero mentre, per Giorgio, il cognome
Bonvento lo utilizzavo solo raramente, non ricordo se anche loro fecero parte
dell’escursione frugifera, comunque là incontrai gli altri per partire verso
nuove avventure.
Mi è simpatico l’anteporre
l’articolo ai nomi propri, peculiare caratteristica dialettale che dove vivo
ora non fa parte del dialetto, così come
mi è simpatica la circostanza linguistica, propria dell’alto Piemonte,
di anteporre la parola “drè” (dietro), ai verbi coniugati all’infinito per
produrre il gerundio: “sun drè nà” letteralmente “sono dietro ad andare” invece
del nazionale “sto andando”, così come “suma drè fa” per dire “stiamo facendo”.
(divagazione letteraria che denota il mio amore per i dialetti)
Dal retro del cortile si
andava per via della roggia, così chiamavamo via Ripari in quanto costeggiava
il canale fino all’incrocio con via Milano. Laddove la via più si avvicina al
canale, una chiusa faceva da utile attraversamento per andare dall’altra parte del canale, oltrepassato
il quale, un lungo muro fungeva da sfioro per riversare l’acqua nello Strona
qualora la chiusa venisse chiusa per la manutenzione del canale stesso.
Camminando su quel muro giungevamo al prato che, in mezzo al paese, d’estate
diveniva il naturale lido dei gravellonesi bagnanti.
Poco prima di quel punto, il
canale biforcava formando una piccola isoletta, “l’isolino” o “isolino
dell’amore”. All’ombra di alcuni alberi, il fresco da loro prodotto avvolgeva alcune
panchine e una cappelletta con una Madonnina. Era meta dei ragazzi più grandi e
complice del formarsi di coppie, da lì il nomignolo dato da noi più piccini.
Dove via Ripari incrociava
via Milano, sulla sinistra, una casetta ospitava il Pagella. Nella sua officina
aggiustava biciclette e motorini. All’interno la luce era poca e tutto era nero
di grasso, l’unica nota di colore più vivo era dato dai cicli in attesa di
riparazioni e dai manifesti che pubblicizzavano copertoni e ingranaggi. Sul
retro una pianta di cachi morbidi, attendeva la maturazione dei frutti per
sporcarci all’inverosimile del vermiglio succo ogni volta che il Pagella si
assentava.
A destra, un negozio di
vernici, poi trasferitosi all’incrocio con via Stampa c’era il negozio dei
fratelli Storti, non che fossero deformi, Storti era semplicemente il cognome.
Uno dei due, amico di mio
padre, si chiamava Remo, e con lui come protagonista, ho un divertente
avvenimento da raccontare.
Per un paio di estati, mio
padre e mia madre ci portarono in montagna laddove termina la valle Strona.
Da
Campello Monti, l’ultimo paese della valle, ospitato da uno stretto fondovalle,
quando nevicava veniva letteralmente sommerso dalla bianca coltre. Gli abitanti
abbandonavano anticipatamente il borgo per scendere più a valle lasciando solo
un vecchietto che, mi dicevano, produceva dei tunnel che, da casa, gli
permettevano di raggiungere la chiesa per annunciare, suonando la campana, il
suo stare bene.
Si partiva a piedi, zaino in
spalla, per una camminata di un’ora circa. Dapprima si attraversava un pianoro
stracolmo di mirtilli, poi si attaccava la salita verso l’alpeggio che ci
ospitava.
Se si proseguiva per un’altra
ora, si arrivava ad un pianoro dal fondo umido di torba nel quale le scarpe
affondavano leggermente. Era sempre ricoperto di alti steli che terminavano in
un candido batuffolo, circondavano un piccolo laghetto sorgivo, punto di
nascita dello Strona.
Il proprietario dell’alpeggio,
affidò a mio padre alcuni lavori di manutenzione da svolgersi nella casa in
cambio di accoglienza.
Non c’era corrente elettrica,
la luce per la notte era affidata ad alcune lampade che, attraverso un lungo
tubo, prelevavano il gas da una bombola.
Al piano terra vivevano una
ventina di mucche e alcuni maiali, l’odore era un problema solo i primi giorni,
per diventare normalità fino a non sentirlo più.
Lungo un sentiero sulla
sinistra, al limitare del piccolo altopiano, dopo mezz’ora di passeggiata si
giungeva ad un altro alpeggio, nonostante fosse molto più piccolo, offriva
riparo ad un centinaio di capre. Il soffitto della stalla, che era il pavimento
delle due stanze dove dormivano i pastori e dove producevano formaggio, burro e
ricotta, di cui facevamo abbondanti ed evacuative scoraggiate, era formato da
tavole distanti alcuni centimetri tra loro, a detta del pastore questo
facilitava il calore proveniente dagli animali. Di notte quel calore era
sicuramente un sollievo, l’ovino profumo un po’ meno.
Il proprietario, dopo la
mungitura, ogni mattina ci lasciava, fuori dalla porta, un secchio d’alluminio
per metà colmo di latte caldo. Mia madre lo bolliva vino a fargli formare una
spessa coltre di panna che chi beve il latte d’oggi fa difficoltà solo ad
immaginare. Lasciava il secchio senza far alcun rumore per non spezzare i suoni
del mattino, tra i quali lo squittire delle marmotte, tranne una volta.
Lo sentimmo urlare da lontano
senza distinguere cosa dicesse fino a che non fu abbastanza vicino a casa da
udire:
- Chi l’è sto storti, sel
ciapi!
Ci alzammo di corsa e usciti
trovammo il pastore, in mano, una matassa indistinta di nastro adesivo che poi
scoprimmo essere quello da imballaggio del colorificio Storti.
Che era successo?
Il Remo, amico di papà,
insieme alla figlia, era nostro ospite dal giorno prima.
La sera, dopo coricati,
alcuni vitelli lasciati liberi, gironzolavano intorno a casa menando il sonoro
campanaccio che viene loro appeso al collo proprio per poter facilmente
individuare ove si possano trovare quando non visti. Questi campanacci, nell’assoluto
silenzio montano della notte, entravano nelle orecchie in modo decisamente
fragoroso, papà e Remo, che aveva appresso un rotolo del suo scotch da
imballaggio, bene pensarono di avvolgere quei campanacci per meglio agevolare
il notturno andare verso Morfeo.
Però, quei tranquilli e
inudibili vitelli, raggiunsero l’alpeggio dove dormiva l’allevatore, ad un mezz’ora
di cammino più su, salirono la breve scala che portava al ballatoio sul quale
erano stati posati alcuni grossi contenitori di latte. Attratti dal profumo di
quella lecconia, rovesciarono, senza farsi accorgere, i bidoni colmi del
prezioso liquido che, nel precipitare a terra persero il tappo nonostante la
chiusura a leva.
Nello scoprire il motivo, a
causa del quale l’allevatore non s’avvide della presenza vicino alla porta di
casa dei fortunati giovani bovini, il povero Giovanni, così si chiamava, andò
su tutte le furie scendendo urlando e a piè levato fino a dove abitavamo noi
che giorno ancora non s’era fatto.
Tutto poi tornò nella calma
finendo in grasse risate tanto da farmi ricordare l’avvenimento fino ad oggi.
Nessun commento:
Posta un commento