giovedì 13 febbraio 2014

Per cento lire



Con cento lire compravo una scatoletta, poco più grande di un pacchetto di sigarette, di soldatini. Si chiamavano Atlantic ed erano alti circa un centimetro. Il fornitore di fiducia era il negozio dei genitori di Cesare, cugino di Luigino.
Corredati di vari “optional”, bisognava staccarli dal supporto con il quale venivano stampati. Ruote, armi, pezzi di carrormato, molte delle dotazioni di quel mini esercito, bisognava montarle.
Come ci si procurava quella cento lire?
In via Corridoni, più o meno di fronte all’asilo, io e Marco andavamo il pomeriggio a stampare adesivi: in un locale vicino a dove ora c’è una farmacia, uno dei clienti del secondo lavoro di mio padre, aveva approntato un malsano laboratorio serigrafico. Non ci si deve meravigliare, il comfort non era tra le priorità in un posto di lavoro. Mio padre, dopo le ore in fabbrica, si metteva al tavolo da disegno per preparare, manualmente, i disegni che sarebbero serviti a realizzare le matrici di stampa. Il computer cominciava a fare la sua comparsa solo in centri meccanografici ed era utilizzato per gestire la burocrazia e per tenere aggiornato l’inventario dei magazzini, oltre che per la ricerca ma, per quello, c’erano pochi Roberto Vacca in tutto il mondo; per la grafica ci vorrà ancora qualche decennio. Seppure fosse esistito avrebbe occupato l’intero palazzo dove abitavo e per disegnare la testata di un calendario sarebbe stato poco conveniente. Era così che mio padre passava le serate: sferzando la carta da lucido con grafos traccianti tratti di varia misura. China e trasferibili, con un lavoro certosino lungo ore, si faceva quello che ora si fa attraverso le finestre che compaiono sul monitor, utilizzando topini, con o senza filo. Molti oggi diventano grafici solamente in quanto capaci di menar dita su una tastiera (ho a che fare con costoro ogni dì), la tecnica e le competenze per quest’arte, invece, pochi la possiedono nonostante, a volte, la gran volontà.
Io e Marco, ci alternavamo: uno tirava la racla sul telaio per far passare l’inchiostro attraverso la seta; l’altro toglieva il supporto stampato per sostituirlo con uno intonso. Avanti così per ore. Si tornava a casa puzzolenti di solvente.
Altro modo di procurarci la cento lire consisteva nel togliere la neve dal marciapiedi di fronte ai negozi, oppure, radunando cassette di legno per portarle ad alcuni vecchietti vicini di casa: a volte ci davano caramelle ma con quello non ci compravamo nulla, le ciucciavamo e basta.
Io ho lavorato per molto tempo al distributore di benzina del Nandino. Nandino aveva un distributore con annessa un’officina per la riparazione delle automobili. Era anche preparatore per auto da rally: lui stesso aveva gareggiato fino a che, una curva, vide lui e il suo collega volare fuori dalla carreggiata. Qualche centinaio di punti occorsero per riparare la sua pazza testa e altri per ricostruirgli il braccio sinistro.
Era amico dei miei genitori da molto prima che diventasse gestore del distributore. Ricordo quando conoscemmo Carmen, la sua ragazza da lì e per sempre; mi sembra che fosse di Briga, quella Svizzera. Tutti e due volevano un gran bene a me e ai miei fratelli.
Mi portava con lui quando provava le auto riparate, mi spassavo tantissimo quando parcheggiava derapando, per entrare a tutta velocità nel piazzale dell’officina.
La mia mansione maggiore era quella di rifornire di carburante auto e camion: ricordo benissimo quanto fosse ghiacciata, in inverno, la pistola dell’erogatore, allora non era nemmeno rivestita di plastica come quelle di adesso e quanto erano ghiacciati i coperchi del cofano delle 500, bisognava aprirli per accedere al serbatoio.
Capitava anche che, infilando un lungo ago nell’alloggio della stecca per la misurazione dell’olio, accendendo la pompa, aspirassi l’olio esausto dai motori, procurandomi, oltre a varie scorticature, anche qualche piccola mancia.
Andavo anche a comprare i pezzi di ricambio in un negozio specializzato lì vicino, la cresta che facevo sull’acquisto dei pezzi era una di quelle cose che si trasformava in Atlantic.
Le varie mance e mazzette, il 29 giugno, festa del paese, diventavano gettoni per gli autoscontri e per il calcinculo. Gli aeroplanini ci facevano diventare piccoli Antoine de Saint-Exupéry.
 Il nostro non precipitare non era dovuto alla nostra perizia di piloti ne tanto mento dalla sicurezza del mezzo, bensì (sembrava) solamente dal grande culo che accompagna le spericolatezze dei cuccioli d’uomo, infatti, mentre uno, (si andava sempre in coppia per aumentare la possibilità di vincere il giro gratis), si menava come un pazzo per girare continuamente, a destra e a sinistra il volantino, posto perfettamente parallelo al pavimento su un’asta verticale al centro dell’apparecchio, l’altro tirava e spingeva una leva premendo contemporaneamente il pulsante che permetteva di sparare, quest’azione faceva salire e scendere l’aereo con sobbalzi che facevano alzare dal seggiolino. A volte, per migliorare la presa sul piccolo volante, tutte queste manovre le si faceva in piedi, solo dopo molto tempo scoprii che la vittoria era determinata solamente da chi conduceva l’intero macchinario, io lo sospettavo, ma a scanso di equivoci, conducevo la mia parte di pericolo con grande impegno.
Io e il Luigino, partecipammo ad una gara. Avevano allestito un lunga, doppia tavolata, di fronte al municipio. I concorrenti, sedendosi uno di fronte all’altro, vennero forniti di cucchiaio e bendati. Un piatto colmo di panna venne posizionato tra i gareggianti, ci chiesero se la volevamo con l’aggiunta del cacao in polvere o di sciroppo all’amarena: optammo per l’amarena. Ci dovevamo imboccare reciprocamente mentre chi guardava si faceva scoppiare la pancia dal gran ridere. Non ricordo se il contendere era dettato dalla velocità o dal numero di piatti ingurgitati, forse per entrambe le modalità, per la quantità ne uscii sicuramente appagato.Vincemmo una quantità enorme di gettoni da usare alle giostre che finimmo quasi alla stessa velocità che applicammo a mangiar panna.

Dietro al municipio c’era la Casa del Popolo, ma questa, è un’altra storia.

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