lunedì 17 febbraio 2014

Qua e là per il paese

dietro il cancello che dava su via Alluvione


Non ricordo se già dalla prima elementare venimmo ospitati, con le aule, presso la “Casa del Popolo”, mi sembra dalla seconda in poi, comunque, le quattro sezioni di chi era nato nel 1962 si ritrovarono in quello che probabilmente era un appartamento. Si salivano due rampe di scale: di fronte, una porta a vetri dava su un balcone che portava nell’appartamento di chi, giù in strada nel piazzale antistante, gestiva un distributore di benzina; sulla destra una porta dava su un disimpegno dal quale si poteva andare nelle aule. La prima a destra era la mia, poi veniva quella della Spezia, quella della Frattini (dove c’era il Luigino) e poi quella della Nava. La mia maestra, Caterina, la chiamavamo maestra Ina. Tutto il 1962 gravellonese si trovava in quei metri quadri mentre il resto dei ragazzi frequentava presso l’edificio elementare “ufficiale”.
I minuti di ricreazione si srotolavano tra il disimpegno e le scale, i maschietti si rotolavano a terra, fingendo ltte e battaglie, con la non tanto celata intenzione di guardar sotto alle gonne delle bimbe, nonché a quelle della bionda moglie del benzinaio. Quando le condizioni meteo lo permettevano, si scendeva in cortile, questo si affacciava sull’esterno di un lungo capannone, sede della bocciofila e delle teatrali virtù dei bimbi che, sotto la guida di instancabili maestre, si prodigavano in pieces di cui, in parte, ricordo qualcosa. Una in particolare mi vide nei panni di uno di quegli osti carogna che non vollero ospitare Gesù e famiglia giunti in città per il censimento. Ero l’oste di un improbabile “Cervo Bianco” e mandavo bellamente da altre parti Giuseppe con il suo ciuccio carico di moglie e figlio. Mi sentivo responsabile “del freddo e del gelo” che colse la famigliola nel mediorientale deserto.
Il Pedolazzi, un pomeriggio che ci vedeva perder tempo in orari extracurriculari, anzi, pernullacurriculari, mi chiamò all’improvviso, mi giro e un sasso tirato al volo con un piede mi prese in pieno l’incisivo laterale destro, ancora ne porto il segno essendosi scheggiato nella parte interna, uno delle tante prove che veramente ho abitato a Gravellona. Sergio lo conosco da quando frequentavamo l’asilo, io da poco venivo da una delle lunghe permanenze dalle nonne a Bolzano, parlavo quindi con un’inflessione veneta, quella di Bolzano, appunto, lui, per prendermi in giro proprio a causa di quell’inflessione, mi chiamava “saponèta”, marcando su quella singola “t” tipica dell’italico nordest; da allora abbiamo camminato spesso insieme sulle strade di Gravellona.
Dal bocciodromo alla latteria i metri erano poche decine, questa si trovava nella piazza del municipio che dava le spalle alla Casa del Popolo, di fronte alla latteria una fontana futuristica, per allora, ornata da un’agave. Nel salire sulla fontana, non mi avvidi della punta di una delle foglie di quella strana pianta che voleva passarmi attraverso, fortunatamente mi bucò solamente un fianco ma il dolore fu acutissimo, più per la carica batterica di cui era portatrice che per il foro stesso, diventò una delle tante croste che toglievo e che si riformavano.
Un po’ più in su, verso Pedemonte, c’era il campetto dell’oratorio al quale, però, si accedeva da via Liberazione. Il cancello d’ingresso era sulla sinistra della sede dell’ACLI, sopra la quale viveva don Erminio, il giovane prete che supportava il più vecchio don Angelo.
Mi trovavo spesso da lui a produrre manifesti disegnati e scritti a mano che annunciavano le varie attività dell’oratorio, dopo averlo aiutato più volte, mi regalò una scatola con la completa attrezzatura utile per lavori al traforo.Me ne innamorai subito infatti conoscevo quel tipo di attività di cui era cultore il padre di Valerio, la prima persona che conobbi con il problema che porta ad un intervento alle corde vocali che conduce ad un  particolare modo di parlare. Ricordo una persona cara e piena di pazienza.
All’oratorio era d’obbligo scorticarsi ginocchia e gomiti inseguendo palloni d’ogni sorta, quasi sempre giocavo in porta e nel tuffarmi era impossibile scansare tutte le pietre e, talvolta, anche le pozzanghere. Prima d’andarci avevo l’accortezza di controllare che non ci fosse un certo Mariolino; un ragazzetto poco più grande di me ma dalla prepotenza decisamente gigantesca, non mi piaceva quindi evitavo di trovarmi ad occupare i suoi medesimi spazi, Gravellona era grandissima, un posto senza Mariolino sempre si trovava.
Ad esempio, via Stampa, la percorrevo quasi fosse un posto esotico, alcuni amici abitavano in quella zona. Da via Stampa si prendeva via Villette che portava ad un’altra via, mi sembra Resiga o Rassega spuntava su via Sempione, là dove Gravellona puntava verso Ornavasso passando dalla zona Campone. Poco prima dell’incrocio, sulla sinistra, un lavatoio faceva mostra di se facendosi annunciare dal vociare delle donne che vi lavavano i panni, era tappa fissa per abbeverarci prima di avventurarci, solitamente in bicicletta, verso la “Frana” dove i motorizzati si esprimevano con salti e acrobazie, mentre noi biciclettari sbattevamo a terra ginocchia e fronti scendendo i ripidi pendii che ogni volta risalivamo spingendo a mano quelle che, con uno sforzo di fantasia e di cartoline tra i raggi, diventavano le nostre motocross.
Con la bicicletta, sempre in compagnia del Luigino, salivamo fino a Casale per menarci giù fino a Gravellona, sparati come razzi, come razzi senza freni; una volta la catena mi si schiantò bloccando improvvisamente la ruota posteriore che, prima di riuscire a fermarmi, tracciò un lungo serpente nero lungo la strada. Qualcosa da quell’esperienza la imparai, imparai che era meglio avere una catena con una maglia apribile all’occorrenza, infatti, le volte successive scendevo si con la catena, però in tasca, andavo veloce senza il rischio di consumare il copertone.
La velocità faceva impazzire entrambi, infatti, andavamo insieme a Cavandone dove il Minazzi ci dotò di impalcatura dentale, una volta ci andammo attrezzati di pattini a rotelle. Luigino era più fortunato, le ruote dei suoi pattini erano di gomma mentre i miei avevano ruote di bachelite o di qualche altro materiale ugualmente duro, questo provocava un vibrare alle mie caviglie che persisteva anche molto dopo l’arrivo in pianura, da Cavandone scendevamo fino all’incrocio con la strada che porta dentro Pallanza, il dolore più forte ce lo procuravamo ai polsi, il continuo fermarci contro muretti e guard-rail ad ogni curva troppo stretta, non essendo questi dotati di cuscini o altro, affidava alla sola elasticità delle giunture, la possibilità di non finire fuori strada.
Dire che eravamo matti non descrive proprio bene quei due mocciosi che eravamo.
Cavandone, dopo la visita dentistica di rito, mentre i nostri genitori si abbandonavano alle chiacchiere d’adulti, ci vedeva camminare sui tetti delle case, addossate una all’altra offrivano un percorso senza alcuna sorta d’interruzione se non dove, qualche metro più sotto, c’era una via. Più che camminare, la paura di essere scoperti, ci faceva correre su terrazzi e tegole, inventammo il parkour?

Mentre stavamo sulla sommità di un tetto, con il piede destro su uno spiovente mentre il sinistro posava sull’altro, Luigino saltò su una finestra aperta. Un suo strillo richiamò la mia attenzione; vidi il motivo di quell’urlare una volta arrivato presso di lui. Stava in piedi sul davanzale e, all’interno, il pavimento non c’era se non a livello di strada, parecchi metri sotto. La casa, evidentemente abbandonata da tempo, mancava quasi completamente degli impiantiti, dei quali restavano poche tavole e travi. Anche in quel caso gli angeli che ci avevano in custodia dovettero prendersi parecchie camomille, chissà se gli vengono riconosciuti gli straordinari?

2 commenti:

  1. Come sono belli i ricordi!!!! Cosa avranno da ricordare i bambini di oggi tra play station e computer?
    Però, che pellacce che eravate!!!!! :-)

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  2. Ricorda che play station e computer glieli stiamo fornendo noi, anche per procurarci di che mangiare producendoli. Quello che manca, forse, è la nostra interazione con loro, una volta magari era fatta di rimproveri e limitazioni, ma qualcosa c'era.
    Io il mio contributo cerco di darlo.
    Un abbraccio

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