venerdì 7 febbraio 2014

Da una vecchia fotografia

La foto ci ritrae in quinta elementare, sono nato nel 1962, per scoprire a quale anno risale, l'operazione aritmetica da svolgere è semplice.
La prima media mi piacque così tanto, ma così tanto, che volli ripeterla due volte.
Ricordo che il primo giorno di scuola della seconda volta che iniziai la prima media entrò in classe il professore di matematica, Di Caprio che avevo avuto l’anno precedente, dicendo a tutti che, anche se aveva acconsentito anche lui alla bocciatura, riteneva che fossi un ragazzo meritevole però, per il mio bene, era meglio che ricominciassi daccapo.
Va bene, non mi è mai pesato; altre cose presero il sopravvento sul mio desiderare le modalità del percorrere la mia esistenza.
Da quando ho ripreso i contatti con alcuni coetanei, lasciati più di mezza dozzina di lustri fa,  ho comunque compreso i danni arrecati ad un bimbo da una bocciatura, primo fra questi il cambio di passo con i coetanei fin lì frequentati.
Probabilmente se non avessi dovuto abbandonare i lidi dell’infanzia, il tempo perduto avrei fatto tempo a recuperarlo; felice di vivere dove sono ora mi crogiolo tra vecchie conoscenze utilizzando un social net-work.
Finalmente, dopo anni di ricerca, trovo grazie ad un caro amico, una fotografia di quando frequentavo la quinta elementare e con lei volti che nella memoria mai erano mutati, vantaggio dato a chi non rivede frequentemente le medesime persone.
Nella mia memoria, alquanto labile solitamente, Daniele Cazzoni e Andrea Zoni sono identici a come appaiono nella fotografia, chi, invece, ha avuto modo di osservare buzzi aumentare o alopecia contornarsi di grigio, la differenza la nota, eccome, tanto da non riconoscere amici e amiche.
Nella fotografia rivedo William Minuzzo: con dieci suoi fratelli era il compagno di giochi con la famiglia più numerosa. Con lui e alcuni suoi fratelli più grandi, passavo interi pomeriggi a sfrondare alberi che l’Oscar, a colpi d’ascia, aveva abbattuto. Noi due, più piccoli e di molto, più che una roncola non meritavamo, il buttar giù tronchi era forse ritenuto troppo pericoloso, mentre una roncola più che un’amputazione non poteva provocare. Nonostante la fatica, le ore passavano piacevolmente e non vedevo l’ora che ridiventasse pomeriggio per tornar nei boschi sopra Gravellona, verso Casale.
Rivedo, in quell’immagine, volti che appartenevano talvolta alla banda nemica, una banda di ragazzi che in talune occasioni meritava solo sassate per il solo motivo che erano “di là del ponte”, allora non sapevo, che anche noi “di qua del ponte” eravamo considerati “di là del ponte” e che per il medesimo motivo meritavamo analoghe sassate; era così che Maurizio, solamente perché abitava oltre lo Strona diveniva un “aldilàdelponte”.
Gli stessi ragazzi, più spesso, diventavano compagni giochi e di avventure lungo quello stesso torrente che li divideva solo  geograficamente.
Lo Strona, forse perché ci abitavo a ridosso, era il mondo che ci accoglieva quasi tutti i giorni.
D’estate accoglieva i nostri corpi in cerca di fresco, in un punto vicino casa, nella “lanca di bavagnoi” rallentava sensibilmente la sua frenetica corsa, tanto da formare una pozza. Attraversavamo i circa sei metri di profondo ristagno per issarci su una inclinata roccia che pareva nascere da sotto un muro di contenimento che, dall’altra parte, accoglieva cortili e case; sulla sinistra la roccia si impennava fino a raggiungere un’altezza, visto che eravamo tra i più piccoli frequentatori, sembrava irraggiungibile o dalla quale, comunque, non ci si poteva tuffare se non si diventava almeno giovanotti. Però, quando giovanotti si diveniva, la roccia diventava piccola e l’azzardo vero lo si poteva immaginare pensando di tuffarsi dal muro più in alto, cosa che puntualmente, con gli anni, si arrivava a fare per davvero.
Gravellona era terra di lucidatori di caffettiere, anche il mio quattordicenne fratello si cimentò in questa illuridente pratica; dopo il bagno post-lavoro, la famosa riga intorno alla vasca, era formata da una crosta spessissima. Per evitare questo, già ai primi caldi, Pietro e Bruno salivano sulla roccia per insaponarsi in un modo veramente elaborato, subito dopo, un bel carpiato li portava nell’acqua del torrente, sciacquandoli prima di una seconda intensa insaponata. Il problema lo avevamo noi più piccoli, primo in quanto l’attesa per il nostro turno di tuffi diventava veramente lunga, secondo perché quell’insaponata rendeva tremendamente viscido il punto di slancio, questo, ovviamente, non ci faceva desistere, anzi, faceva aumentare la quantità di adrenalina nel sangue, anche se solamente ora comprendo che era questa a far venire l’affanno senza aver fatto sforzi prima del tuffo, un eccitante prodotto del nostro corpo che è padre di tutti i gesti irresponsabili compiuti dai ragazzi.
In quel fermarsi dello Strona cominciai a bagnarmi sin da piccolo, in un’occasione un amico dei miei genitori, Jadis (si scrive così?), mi trasse da morte quasi sicura, letteralmente per i capelli; a mio padre l’acqua arrivava alla vita, il fatto che i miei fianchi fossero una quarantina di centimetri più in basso era una sottigliezza che non mi fece comprendere che anche la mia bocca fosse tanto più in basso, infatti, cominciai a bere e ad affondare fino a che, appunto Jadis, mi salvò.
Mai scorderò quelle giornate accompagnate da musiche che mangiadischi colorati riversavano nell’aria: “Azzurro” di Celentano era una colonna sonora fissa anche di schiumate fatte con la saponaria che arricchiva le sponde e di brocche d’acqua valorizzata da polverine all’arancia, spesso unico lusso alternativo alle bibite gassate di note marche, l’unico svantaggio dell’esposizione di quei liquidi, era dato dall’assalto dei tafani, insetti di cui occupavamo il campo, dal morso tanto doloroso da somigliare ad una martellata.
Una vecchia foto, quanto smuove tra le volute del cervello? Ho visto Franco che si faceva il bagno in un bacile perché l’antico gabinetto non prevedeva la vasca. Ho visto Pinuccio al quale somigliavo, più per la sporgenza d’ossa che per una similitudine di fisionomia, tanto che spesso ci scambiavano per cugini; ho visto sua sorella Cinzia che portandola sul portapacchi posteriore di una mia “Graziella”, ormai priva dei freni di serie ma fornita di un sistema rallentante dato dalla pressione delle mie scarpe direttamente sulla ruota. Non so se per mia imperizia o se per un azzardo monoruotesco, la mora sorellina di Pinuccio, scartavetrava con il mento alcuni metri d’asfalto tanto da doverglielo cucire (il mento, non l’asfalto), ricordo anche suo padre Ciro, ovviamente imbestialito, che dal suo balcone al primo piano mi urlava il suo disappunto gridandomi: “ma sei proprio un macaco”.
Poi vedo Andrea, abitava nelle case popolari di via Liberazione, sulla destra dopo il sottopasso della ferrovia, lui e la sua abitazione collegano i ricordi a Tonino e Gianni, fratelli casertani di poco più piccoli, Tonino era compagno di mio fratello Marco, anche loro abitavano in quel complesso; in quanto a “dispresi”, competevano sicuramente con me e il Luigino, all’Andrea  volevo un gran bene, in qualche modo il suo ricordo si collega alla Svizzera.
Altri fuoriescono da altre fotografie, fotografie nelle quali non avrei potuto esserci, non solamente perché non cacciavo la mia quotaparte per entrarne in possesso, ma perché ritrae ragazzi di altre sezioni o di altre annate, a quelle mi collegano ragazzi a me maggiormente vicini per età, mi lega mio fratello Marco, di poco più di un anno più giovane.
Con Walter poi, amici nemici costanti, trascorrevo giorni di spasso senza sosta alternati a litigi fatti anche di scazzottate, una in particolare ricordo, quando affermò di essere fidanzato di una nostra compagna e io, offeso più che mai, da quando avevo sei anni mi ritenevo l’unico “uomo” di tal donzella, presi questo fatto come un’onta grave assai, tanto che, avvinghiati a terra, non pochi sforzi fecero le maestre per separarci. Anche con il di lui cugino feci a botte, Giampiero: stavamo scavalcando contemporaneamente la stessa ringhiera quando, non ricordo perché, cominciammo a menarci con la mano libera mentre l’altra continuava a stringere la sbarra sulla quale ci stavamo arrampicando. Che spasso, e poi via a giocare a calciobalilla, magari formando la medesima coppia.
In via Marconi, subito dopo il negozio di frutta del Walter, c’era una prato che, all’improvviso, un giorno accolse camion e ruspe. Dovevano scavare un fosso che avrebbe accolto le fondamenta di un costruendo palazzo; ci andarono a vivere, una volta ultimato, tra gli altri, la Gabriella e il Severino nonché il dentista che un ossimoro ospitava nel cognome, si chiamava infatti Caramella, già il nome faceva venire le fitte da carie, ma tant’è.
Sui bordi dello scavo si andava accumulando la terra di risulta, quale campo di battaglia migliore si poteva presentare per i nostri giochi? Si cominciava con il tirarsi, senza alcun riparo, piccoli grumi di terra, si arrivava poi a tirarcene di più consistenti fino a che, qualcuno colpito in modo particolarmente preciso, si chinava per trovare proiettili più consistenti di quelli friabili fin lì usati, e i sassi, erano sicuramente più consistenti, infatti procuravano lividi e bernoccoli degni di nota, nonostante, a quel punto, quei cumuli, ci offrissero riparo, i tiri ad ogiva raggiungevano il bersaglio dall’alto
Antonio invece, anni dopo lo trovai a gestire una pizzeria, destino che per un po’ lo accomunò a Pietro che pure lo vedeva impastare pizze in famiglia. Pietro, dopo tanti anni, grazie ad internet, lo portò a diventare la guida di mia moglie e me; durante una vacanza con lui concordata, insieme a sua moglie Cinzia ci accolse come se fossimo stati parenti dai quali mai si era staccato.
Daniele poi, più grande e più grosso di tutti noi, era tanto imponente quanto buono, per quanto un bimbo possa essere imponente, eppure, ai nostri occhi lui era grandissimo.
Miranda? Una spilungona, ci sovrastava tutti di parecchi centimetri, Competeva solamente con Patrizia, una moretta “dilàdelponte” mentre Lorena era una carina bimba molto, ma molto magra.
Doriana viveva nello stesso condominio dove abitava il Luigino, il mio più caro compagno di giochi e scorrerie. Biondina e simpatica, veniva dal veneto e non sarebbe riuscita a celare questa sua provenienza nemmeno impegnandosi, l’inflessione che  aveva il suo parlare era alieno a noi quanto quello di uno straniero: solo a scuola si parlava in italiano, fuori si usava il dialetto o, quantomeno, un modo di proferire le parole decisamente caratteristico, come caratteristico è ogni parlare in Italia; bastano pochi chilometri, a volte metri, per parlare lo stesso dialetto ma in modo diverso.
Luigino. Meriterebbe un libro solamente il descriverlo. Non eravamo nella stessa classe, penso addirittura che questo non fosse affatto casuale; il tenerci distanti, almeno durante le lezioni, ha prolungato l’esistenza stessa del pianeta, allora però, la ritenevamo un’ingiustizia.
I  pomeriggi, che fossero invernalmente brevi o colmi del sole d’estate, ci vedevano comunque inseparabili; i compiti non erano un problema, o non li facevamo oppure li svolgevamo in modo scelleratamente superficiale, importante era correr per prati o scivolare sulla neve (allora era abbondante). Con il suo piccolo Rocki, incrociavamo ogni via e ogni vicolo di Gravellona, di qua e di là del ponte; in via Stampa o a Pedemonte; Santa Maria o Canton w, nessuna zona del nostro amato paese era esente dalle nostre marachelle. Frutta rubata, visite a cantieri di case in costruzione, cantine e garages incustoditi, tutto era luogo d’avventura.
Porto ancora molte cicatrici di quel tempo, una serie me la procuraria scendendo con la slitta dalle parti di Pedemonte, nei pressi della casa di un’altra numerosa famiglia, di questa il mio coetaneo era Maurizio. Ebbene, con Luigino salivamo per una strada priva d’asfalto per poi scivolare verso la strada che si trovava più a valle; forse a causa della fatica prodotta dalle ripetute salite, il controllo della slitta mi divento ad un certo punto, difficile. Ad una curva uscii di strada cadendo al di là di un reticolato posto sulla destra.
Una frazione di secondo e mi trovai a testa in giù, sullo scosceso pendio, una gamba avvolta dal filo spinato che, non so quanto provvidenzialmente, fermo il mio cadere lasciandomi, a imperituro ricordo, piccole cicatrici di fori intorno al ginocchio. Me ne accorsi solamente arrivato a casa, spesso quando mi facevo male, a casa dovevo scollare il pantalone dalle ginocchia o la camicia dai gomiti, quella era semplicemente una tante.
Un’altra occasione per cui mi dovetti scollare il calzone dal ginocchio, fu quando, buttandoci dal balcone di un palazzo in costruzione, usavamo  come ammortizzatore un cumulo di sabbia che sarebbe dovuto finire in una betoniera per diventar cemento. Cosa successe? Il continuo saltare, ad un certo punto, spianò quasi completamente quella montagnola, limitando sensibilmente la sua salvifica presenza, tanto che i miei incisivi si piantarono nel medesimo ginocchio di cui sopra. In quell’occasione il danno fu grave: i denti davanti diventarono mobili e dondolavano avanti e indietro quasi senza ancoraggio, mentre il ginocchio, colmo di invasivi batteri di cui solitamente poco mi curavo, presero il sopravvento procurandomi un’infezione che gonfiò come un pallone la maltrattata giuntura. Molti giorni passai a letto, con interminabili impacchi di acqua e sale, evidentemente gli antibiotici offrivano un riparar troppo lento, qui intervenne l’esperienza, più empirica che medica, dello Zilocchi che, oltre alle iniezioni, mi impose quest’altro supplizio.
Sul Toce, dove ora insiste lo svincolo dell’autostrada che ha portato alla ribalta la nostra città, (famosa è ormai, alla radio, la descrizione di ciò che avviene sulla “Genova, Voltri, Gravellona Toce”), c’era una cava di sabbia estratta dal fiume dove i cumuli, formati dai camion che man mano vi salivano, raggiungevano altezze ragguardevoli. Li salivamo e, prendendo adeguata rincorsa, ci tuffavamo lungo la sciara, obiettivo? Volare il più a lungo possibile. Si facevano salti di parecchi metri, l’atterraggio era comunque morbido, a volte si affondava nella sabbia con tutte le gambe, ci si liberava faticosamente e altrettanto faticosamente si risaliva la china fino a conquistar la vetta per un nuovo volo. Quando si tornava a casa svuotavamo mutande, scarpe e tasche da chili di sabbia, negli anni avremmo potuto accumulare una denuncia per appropriazione indebita, ma quei salti, insieme alle risalite, nonostante ci facessero produrre acido lattico da non sentir più le gambe, erano quanto più vicino al volo umano fosse possibile. Impagabile anche il solo ricordarli.
Di quella foto ricordo anche Saverio, abitava lungo via Liberazione, quasi a giungere a Pedemonte, se non sbaglio, proprio nell’interrato di quel condomino, presi il primo contatto con il mondo della grafica. Mio padre realizzava disegni per quelle che dovevano diventare matrici serigrafiche e sotto a quel palazzo c’era una serigrafia, appunto, dove realizzavano anche fustelle. Ora ho un’azienda che fornisce servizi alle tipografie, tra questi servizi vi è anche il fustellare.
Si passa poi oltre il margine della fotografia cadendo in altre e in altri ricordi, chissà se avrò l’opportunità di vedere una che mi ritrae con la prima classe con la quale frequentai la prima media.
Applicazioni tecniche era insegnata con la distinzione di genere, antico rimasuglio di una separazione, nelle scuole, tra maschi e femmine: il Violini era il prof dei maschi mentre la Rocca insegnava, se ricordo bene, economia domestica o qualcosa del genere, alle femmine.
C’erano poi la Tartarini di francese e una certa Clelia, di cui non ricordo il cognome ma ricordo che era ligure, insegnava italiano e latino. Il già citato Di Caprio era il mio preferito, ricordo la bella persona e la sua materia, matematica. Altri non me ne vengono in mente se non la Visentini, insegnante, nella seconda prima media, di italiano il latino diventò materia facoltativa proprio in quell’anno, aderimmo come volontari solo io e mio fratello, non per eccesso zelo ma su indicazione di nostro padre: finimmo non classificati, il fatto che fosse volontaria la frequenza non incise sul risultato finale. Nota era la frase di rimprovero che ripeteva la Visentini: “Taci tu e pensa ai fatti tuoi che già son tristi”.
Di quella prima, prima media ricordo Franco, un ragazzo di Granerolo, un piccolo paese al quale si giungeva, oltre che deviando dalla statale che porta ad Omega, anche percorrendo anche una strada di montagna che partiva dal “Motto” e che entrava in paese in modo inaspettato, almeno per me quando la percorsi la prima volta.
Un giorno, nel cortile, forse dopo una caccia ai maggiolini, mi avvicinò Elena con l’esposizione della  sentenza di un’espressione di voto nata tra le ragazze: ero stato eletto il ragazzo più bello della scuola, non voglio entrare nel merito di tale giudizio, si trattava comunque di ragazzi poco più che decenni, però essendo successo in presenza di altri compagni, la vergogna mi travolse tanto da vedermi diventare rosso fuoco. A me sarebbe bastato che questo giudizio giungesse da una ragazza in particolare, essendo lei già in terza media, era molto ma molto più grande, quindi, irraggiungibile.
Altro non ricordo ma sono convinto che se vedessi altre fotografie di quell'epoca e di quelle classi, riuscirei a costruire altri collegamenti.
Attendo.


















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