La foto ci ritrae in quinta elementare, sono nato nel 1962, per scoprire a quale anno risale, l'operazione aritmetica da svolgere è semplice.
La prima media mi piacque
così tanto, ma così tanto, che volli ripeterla due volte.
Ricordo che il primo giorno
di scuola della seconda volta che iniziai la prima media entrò in classe il
professore di matematica, Di Caprio che avevo avuto l’anno precedente, dicendo a tutti che,
anche se aveva acconsentito anche lui alla bocciatura, riteneva che fossi un
ragazzo meritevole però, per il mio bene, era meglio che ricominciassi daccapo.
Va bene, non mi è mai pesato;
altre cose presero il sopravvento sul mio desiderare le modalità del percorrere
la mia esistenza.
Da quando ho ripreso i
contatti con alcuni coetanei, lasciati più di mezza dozzina di lustri fa, ho comunque compreso i danni arrecati ad un
bimbo da una bocciatura, primo fra questi il cambio di passo con i coetanei fin
lì frequentati.
Probabilmente se non avessi
dovuto abbandonare i lidi dell’infanzia, il tempo perduto avrei fatto tempo a
recuperarlo; felice di vivere dove sono ora mi crogiolo tra vecchie conoscenze
utilizzando un social net-work.
Finalmente, dopo anni di
ricerca, trovo grazie ad un caro amico, una fotografia di quando frequentavo la
quinta elementare e con lei volti che nella memoria mai erano mutati, vantaggio
dato a chi non rivede frequentemente le medesime persone.
Nella mia memoria, alquanto
labile solitamente, Daniele Cazzoni e Andrea Zoni sono identici a come
appaiono nella fotografia, chi, invece, ha avuto modo di osservare buzzi
aumentare o alopecia contornarsi di grigio, la differenza la nota, eccome,
tanto da non riconoscere amici e amiche.
Nella fotografia rivedo
William Minuzzo: con dieci suoi fratelli era il compagno di giochi con la
famiglia più numerosa. Con lui e alcuni suoi fratelli più grandi, passavo
interi pomeriggi a sfrondare alberi che l’Oscar, a colpi d’ascia, aveva abbattuto.
Noi due, più piccoli e di molto, più che una roncola non meritavamo, il buttar
giù tronchi era forse ritenuto troppo pericoloso, mentre una roncola più che
un’amputazione non poteva provocare. Nonostante la fatica, le ore passavano
piacevolmente e non vedevo l’ora che ridiventasse pomeriggio per tornar nei
boschi sopra Gravellona, verso Casale.
Rivedo, in quell’immagine,
volti che appartenevano talvolta alla banda nemica, una banda di ragazzi che in
talune occasioni meritava solo sassate per il solo motivo che erano “di là del
ponte”, allora non sapevo, che anche noi “di qua del ponte” eravamo considerati
“di là del ponte” e che per il medesimo motivo meritavamo analoghe sassate; era
così che Maurizio, solamente perché abitava oltre lo Strona diveniva un
“aldilàdelponte”.
Gli stessi ragazzi, più
spesso, diventavano compagni giochi e di avventure lungo quello stesso torrente
che li divideva solo geograficamente.
Lo Strona, forse perché ci
abitavo a ridosso, era il mondo che ci accoglieva quasi tutti i giorni.
D’estate accoglieva i nostri
corpi in cerca di fresco, in un punto vicino casa, nella “lanca di bavagnoi” rallentava
sensibilmente la sua frenetica corsa, tanto da formare una pozza.
Attraversavamo i circa sei metri di profondo ristagno per issarci su una
inclinata roccia che pareva nascere da sotto un muro di contenimento che,
dall’altra parte, accoglieva cortili e case; sulla sinistra la roccia si
impennava fino a raggiungere un’altezza, visto che eravamo tra i più piccoli
frequentatori, sembrava irraggiungibile o dalla quale, comunque, non ci si
poteva tuffare se non si diventava almeno giovanotti. Però, quando giovanotti si
diveniva, la roccia diventava piccola e l’azzardo vero lo si poteva immaginare
pensando di tuffarsi dal muro più in alto, cosa che puntualmente, con gli anni,
si arrivava a fare per davvero.
Gravellona era terra di
lucidatori di caffettiere, anche il mio quattordicenne fratello si cimentò in
questa illuridente pratica; dopo il bagno post-lavoro, la famosa riga intorno
alla vasca, era formata da una crosta spessissima. Per evitare questo, già
ai primi caldi, Pietro e Bruno salivano sulla roccia per insaponarsi in un
modo veramente elaborato, subito dopo, un bel carpiato li portava nell’acqua
del torrente, sciacquandoli prima di una seconda intensa insaponata. Il
problema lo avevamo noi più piccoli, primo in quanto l’attesa per il nostro
turno di tuffi diventava veramente lunga, secondo perché quell’insaponata
rendeva tremendamente viscido il punto di slancio, questo, ovviamente, non ci
faceva desistere, anzi, faceva aumentare la quantità di adrenalina nel sangue,
anche se solamente ora comprendo che era questa a far venire l’affanno senza aver
fatto sforzi prima del tuffo, un eccitante prodotto del nostro corpo che è
padre di tutti i gesti irresponsabili compiuti dai ragazzi.
In quel fermarsi dello Strona
cominciai a bagnarmi sin da piccolo, in un’occasione un amico dei miei
genitori, Jadis (si scrive così?), mi trasse da morte quasi sicura,
letteralmente per i capelli; a mio padre l’acqua arrivava alla vita, il fatto
che i miei fianchi fossero una quarantina di centimetri più in basso era una
sottigliezza che non mi fece comprendere che anche la mia bocca fosse tanto più
in basso, infatti, cominciai a bere e ad affondare fino a che, appunto Jadis,
mi salvò.
Mai scorderò quelle giornate
accompagnate da musiche che mangiadischi colorati riversavano nell’aria:
“Azzurro” di Celentano era una colonna sonora fissa anche di schiumate fatte
con la saponaria che arricchiva le sponde e di brocche d’acqua valorizzata da
polverine all’arancia, spesso unico lusso alternativo alle bibite gassate di
note marche, l’unico svantaggio dell’esposizione di quei liquidi, era dato
dall’assalto dei tafani, insetti di cui occupavamo il campo, dal morso tanto
doloroso da somigliare ad una martellata.
Una vecchia foto, quanto smuove
tra le volute del cervello? Ho visto Franco che si faceva il bagno in un bacile
perché l’antico gabinetto non prevedeva la vasca. Ho visto Pinuccio al quale
somigliavo, più per la sporgenza d’ossa che per una similitudine di fisionomia,
tanto che spesso ci scambiavano per cugini; ho visto sua sorella Cinzia che
portandola sul portapacchi posteriore di una mia “Graziella”, ormai priva dei
freni di serie ma fornita di un sistema rallentante dato dalla pressione delle
mie scarpe direttamente sulla ruota. Non so se per mia imperizia o se per un
azzardo monoruotesco, la mora sorellina di Pinuccio, scartavetrava con il mento
alcuni metri d’asfalto tanto da doverglielo cucire (il mento, non l’asfalto),
ricordo anche suo padre Ciro, ovviamente imbestialito, che dal suo balcone al
primo piano mi urlava il suo disappunto gridandomi: “ma sei proprio un macaco”.
Poi vedo Andrea, abitava
nelle case popolari di via Liberazione, sulla destra dopo il sottopasso della
ferrovia, lui e la sua abitazione collegano i ricordi a Tonino e Gianni,
fratelli casertani di poco più piccoli, Tonino era compagno di mio fratello
Marco, anche loro abitavano in quel complesso; in quanto a “dispresi”,
competevano sicuramente con me e il Luigino, all’Andrea volevo un gran bene, in qualche modo il suo
ricordo si collega alla Svizzera.
Altri fuoriescono da altre
fotografie, fotografie nelle quali non avrei potuto esserci, non solamente
perché non cacciavo la mia quotaparte per entrarne in possesso, ma perché
ritrae ragazzi di altre sezioni o di altre annate, a quelle mi collegano ragazzi
a me maggiormente vicini per età, mi lega mio fratello Marco, di poco più di un
anno più giovane.
Con Walter poi, amici nemici costanti, trascorrevo giorni di spasso senza sosta alternati a litigi fatti anche di scazzottate, una
in particolare ricordo, quando affermò di essere fidanzato di una nostra
compagna e io, offeso più che mai, da quando avevo sei anni mi ritenevo l’unico
“uomo” di tal donzella, presi questo fatto come un’onta grave assai, tanto che,
avvinghiati a terra, non pochi sforzi fecero le maestre per separarci. Anche
con il di lui cugino feci a botte, Giampiero: stavamo scavalcando
contemporaneamente la stessa ringhiera quando, non ricordo perché, cominciammo
a menarci con la mano libera mentre l’altra continuava a stringere la sbarra
sulla quale ci stavamo arrampicando. Che spasso, e poi via a giocare a
calciobalilla, magari formando la medesima coppia.
In via Marconi, subito dopo
il negozio di frutta del Walter, c’era una prato che, all’improvviso, un giorno
accolse camion e ruspe. Dovevano scavare un fosso che avrebbe accolto le
fondamenta di un costruendo palazzo; ci andarono a vivere, una volta ultimato,
tra gli altri, la Gabriella
e il Severino nonché il dentista che un ossimoro ospitava nel cognome, si
chiamava infatti Caramella, già il nome faceva venire le fitte da carie, ma
tant’è.
Sui bordi dello scavo si
andava accumulando la terra di risulta, quale campo di battaglia migliore si
poteva presentare per i nostri giochi? Si cominciava con il tirarsi, senza
alcun riparo, piccoli grumi di terra, si arrivava poi a tirarcene di più
consistenti fino a che, qualcuno colpito in modo particolarmente preciso, si
chinava per trovare proiettili più consistenti di quelli friabili fin lì usati,
e i sassi, erano sicuramente più consistenti, infatti procuravano lividi e
bernoccoli degni di nota, nonostante, a quel punto, quei cumuli, ci offrissero
riparo, i tiri ad ogiva raggiungevano il bersaglio dall’alto
Antonio invece, anni dopo lo
trovai a gestire una pizzeria, destino che per un po’ lo accomunò a Pietro che
pure lo vedeva impastare pizze in famiglia. Pietro, dopo tanti anni, grazie ad
internet, lo portò a diventare la guida di mia moglie e me; durante una vacanza
con lui concordata, insieme a sua moglie Cinzia ci accolse come se fossimo
stati parenti dai quali mai si era staccato.
Daniele poi, più grande e più
grosso di tutti noi, era tanto imponente quanto buono, per quanto un bimbo
possa essere imponente, eppure, ai nostri occhi lui era grandissimo.
Miranda? Una spilungona, ci sovrastava tutti di parecchi centimetri, Competeva solamente con Patrizia, una moretta “dilàdelponte” mentre Lorena era una carina bimba molto, ma molto magra.
Miranda? Una spilungona, ci sovrastava tutti di parecchi centimetri, Competeva solamente con Patrizia, una moretta “dilàdelponte” mentre Lorena era una carina bimba molto, ma molto magra.
Doriana viveva nello stesso
condominio dove abitava il Luigino, il mio più caro compagno di giochi e
scorrerie. Biondina e simpatica, veniva dal veneto e non sarebbe riuscita a
celare questa sua provenienza nemmeno impegnandosi, l’inflessione che aveva il suo parlare era alieno a noi quanto
quello di uno straniero: solo a scuola si parlava in italiano, fuori si
usava il dialetto o, quantomeno, un modo di proferire le parole
decisamente caratteristico, come caratteristico è ogni parlare in Italia;
bastano pochi chilometri, a volte metri, per parlare lo stesso dialetto ma in
modo diverso.
Luigino. Meriterebbe un libro solamente il descriverlo. Non eravamo nella stessa classe, penso addirittura che questo non fosse affatto casuale; il tenerci distanti, almeno durante le lezioni, ha prolungato l’esistenza stessa del pianeta, allora però, la ritenevamo un’ingiustizia.
Luigino. Meriterebbe un libro solamente il descriverlo. Non eravamo nella stessa classe, penso addirittura che questo non fosse affatto casuale; il tenerci distanti, almeno durante le lezioni, ha prolungato l’esistenza stessa del pianeta, allora però, la ritenevamo un’ingiustizia.
I pomeriggi, che fossero invernalmente brevi o
colmi del sole d’estate, ci vedevano comunque inseparabili; i compiti non erano un
problema, o non li facevamo oppure li svolgevamo in modo scelleratamente
superficiale, importante era correr per prati o scivolare sulla neve (allora
era abbondante). Con il suo piccolo Rocki, incrociavamo ogni via e ogni vicolo
di Gravellona, di qua e di là del ponte; in via Stampa o a Pedemonte; Santa
Maria o Canton w, nessuna zona del nostro amato paese era esente dalle nostre
marachelle. Frutta rubata, visite a cantieri di case in costruzione, cantine e
garages incustoditi, tutto era luogo d’avventura.
Porto ancora molte cicatrici
di quel tempo, una serie me la procuraria scendendo con la slitta dalle parti
di Pedemonte, nei pressi della casa di un’altra numerosa famiglia, di questa il
mio coetaneo era Maurizio. Ebbene, con Luigino salivamo per una strada priva
d’asfalto per poi scivolare verso la strada che si trovava più a valle; forse a
causa della fatica prodotta dalle ripetute salite, il controllo della slitta mi
divento ad un certo punto, difficile. Ad una curva uscii di strada cadendo al
di là di un reticolato posto sulla destra.
Una frazione di secondo e mi trovai a testa in giù, sullo scosceso pendio, una gamba avvolta dal filo spinato che, non so quanto provvidenzialmente, fermo il mio cadere lasciandomi, a imperituro ricordo, piccole cicatrici di fori intorno al ginocchio. Me ne accorsi solamente arrivato a casa, spesso quando mi facevo male, a casa dovevo scollare il pantalone dalle ginocchia o la camicia dai gomiti, quella era semplicemente una tante.
Una frazione di secondo e mi trovai a testa in giù, sullo scosceso pendio, una gamba avvolta dal filo spinato che, non so quanto provvidenzialmente, fermo il mio cadere lasciandomi, a imperituro ricordo, piccole cicatrici di fori intorno al ginocchio. Me ne accorsi solamente arrivato a casa, spesso quando mi facevo male, a casa dovevo scollare il pantalone dalle ginocchia o la camicia dai gomiti, quella era semplicemente una tante.
Un’altra occasione per cui mi
dovetti scollare il calzone dal ginocchio, fu quando, buttandoci dal balcone di
un palazzo in costruzione, usavamo come
ammortizzatore un cumulo di sabbia che sarebbe dovuto finire in una betoniera
per diventar cemento. Cosa successe? Il continuo saltare, ad un certo punto,
spianò quasi completamente quella montagnola, limitando sensibilmente la sua
salvifica presenza, tanto che i miei incisivi si piantarono nel medesimo
ginocchio di cui sopra. In quell’occasione il danno fu grave: i denti davanti
diventarono mobili e dondolavano avanti e indietro quasi senza ancoraggio,
mentre il ginocchio, colmo di invasivi batteri di cui solitamente poco mi
curavo, presero il sopravvento procurandomi un’infezione che gonfiò come un
pallone la maltrattata giuntura. Molti giorni passai a letto, con interminabili
impacchi di acqua e sale, evidentemente gli antibiotici offrivano un riparar
troppo lento, qui intervenne l’esperienza, più empirica che medica, dello
Zilocchi che, oltre alle iniezioni, mi impose quest’altro supplizio.
Sul Toce, dove ora insiste lo
svincolo dell’autostrada che ha portato alla ribalta la nostra città, (famosa è
ormai, alla radio, la descrizione di ciò che avviene sulla “Genova, Voltri,
Gravellona Toce”), c’era una cava di sabbia estratta dal fiume dove i cumuli,
formati dai camion che man mano vi salivano, raggiungevano altezze
ragguardevoli. Li salivamo e, prendendo adeguata rincorsa, ci tuffavamo lungo
la sciara, obiettivo? Volare il più a lungo possibile. Si facevano salti di
parecchi metri, l’atterraggio era comunque morbido, a volte si affondava nella
sabbia con tutte le gambe, ci si liberava faticosamente e altrettanto
faticosamente si risaliva la china fino a conquistar la vetta per un nuovo
volo. Quando si tornava a casa svuotavamo mutande, scarpe e tasche da chili di
sabbia, negli anni avremmo potuto accumulare una denuncia per appropriazione
indebita, ma quei salti, insieme alle risalite, nonostante ci facessero
produrre acido lattico da non sentir più le gambe, erano quanto più vicino al
volo umano fosse possibile. Impagabile anche il solo ricordarli.
Di quella foto ricordo anche
Saverio, abitava lungo via Liberazione, quasi a giungere a Pedemonte, se non
sbaglio, proprio nell’interrato di quel condomino, presi il primo contatto con il mondo
della grafica. Mio padre realizzava disegni per quelle che dovevano diventare
matrici serigrafiche e sotto a quel palazzo c’era una serigrafia, appunto, dove
realizzavano anche fustelle. Ora ho un’azienda che fornisce servizi
alle tipografie, tra questi servizi vi è anche il fustellare.
Si passa poi oltre il margine
della fotografia cadendo in altre e in altri ricordi, chissà se avrò
l’opportunità di vedere una che mi ritrae con la prima classe con la quale
frequentai la prima media.
Applicazioni tecniche era
insegnata con la distinzione di genere, antico rimasuglio di una separazione,
nelle scuole, tra maschi e femmine: il Violini era il prof dei maschi mentre la Rocca insegnava, se ricordo
bene, economia domestica o qualcosa del genere, alle femmine.
C’erano poi la Tartarini di francese e
una certa Clelia, di cui non ricordo il cognome ma ricordo che era ligure,
insegnava italiano e latino. Il già citato Di Caprio era il mio preferito,
ricordo la bella persona e la sua materia, matematica. Altri non me ne vengono
in mente se non la Visentini , insegnante, nella seconda prima media, di italiano il latino diventò materia facoltativa proprio in
quell’anno, aderimmo come volontari solo io e mio fratello, non per eccesso
zelo ma su indicazione di nostro padre: finimmo non classificati, il fatto che
fosse volontaria la frequenza non incise sul risultato finale. Nota era la
frase di rimprovero che ripeteva la Visentini : “Taci tu e pensa ai fatti tuoi che già
son tristi”.
Di quella prima, prima media
ricordo Franco, un ragazzo di Granerolo, un piccolo paese al quale si giungeva,
oltre che deviando dalla statale che porta ad Omega, anche percorrendo anche
una strada di montagna che partiva dal “Motto” e che entrava in paese in modo
inaspettato, almeno per me quando la percorsi la prima volta.
Un giorno, nel cortile, forse dopo una caccia ai maggiolini, mi avvicinò Elena con l’esposizione della sentenza di un’espressione di voto nata tra le ragazze: ero stato eletto il ragazzo più bello della scuola, non voglio entrare nel merito di tale giudizio, si trattava comunque di ragazzi poco più che decenni, però essendo successo in presenza di altri compagni, la vergogna mi travolse tanto da vedermi diventare rosso fuoco. A me sarebbe bastato che questo giudizio giungesse da una ragazza in particolare, essendo lei già in terza media, era molto ma molto più grande, quindi, irraggiungibile.
Un giorno, nel cortile, forse dopo una caccia ai maggiolini, mi avvicinò Elena con l’esposizione della sentenza di un’espressione di voto nata tra le ragazze: ero stato eletto il ragazzo più bello della scuola, non voglio entrare nel merito di tale giudizio, si trattava comunque di ragazzi poco più che decenni, però essendo successo in presenza di altri compagni, la vergogna mi travolse tanto da vedermi diventare rosso fuoco. A me sarebbe bastato che questo giudizio giungesse da una ragazza in particolare, essendo lei già in terza media, era molto ma molto più grande, quindi, irraggiungibile.
Altro non ricordo ma sono
convinto che se vedessi altre fotografie di quell'epoca e di quelle classi, riuscirei a costruire altri
collegamenti.
Attendo.
grazie per avermi portato in giro con te
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