Ecco dove si trova il palazzo
che ospitava il malandrino.
Al piano terra si trovava una
delle vittime dei bimbi che abitavano quel palazzo e quelli circostanti, l’ing.
Priotto che, tra l’altro, era fratello della maestra elementare Cristina. Aveva
uno studio, essendo lui ingegnere e finché gli schiamazzi erano gestibili da
orecchie tranquille, nulla succedeva, ma se di suo, l’ingegnere già si trovava
girato d’ammenicoli o se qualche ramingo pallone, con un boato, schiantava sui
vetri, allora, un fuggi, fuggi animava il cortile interrato rispetto al piano
stradale.
- La dovete finive di fave
tutto questo vumove, qui si lavova.
Immagino il povero cristo
intento a parlare con un cliente o a disegnare al tavolo, un botto di pallone
che non rompeva i vetri per chissà quale miracolo, lo faceva sicuramente
trasalire, riesco a immaginare me nella medesima situazione, quindi, i suoi
rimproveri erano sicuramente moderati da una empatia quasi beata.
Quel cortile ci vedeva
giocare tutti i giochi con cui, oggi al computer, è veramente complicato dilettarsi.
Il salto della cavallina piuttosto che nascondino, ci permettevano di passare
intere giornate, fino al giungere, anche invernalmente anticipato, del buio.
Le cantine erano tunnel
lunghi pochi metri ma riuscivamo a farli diventare chilometrici, o era solamente
il veder tutto grande di quando si è piccini.
C’erano spesso cassette di
acqua minerale lungo il corridoio, ovviamente quando si aveva sete si beveva da
un rubinetto, ma se trovavamo qualche chiodo, il tappo diventava bucherellato e
bere della Lisiel in quel modo, era da panico, “busciava” talmente tanto da far
venire male al naso.
Un volta l’Ugo lasciò la sua
bici da turismo incustodita, partii all’avventura tornando a buio fatto, da non
crederci, feci il giro di tutto il lago d’Orta e solo per arrivare ad Omegna si
dovevano percorrere sei o sette chilometri. Tornai con un male al culo che mi
durò parecchi giorni. Fortunatamente non sapevo andare in motocicletta,
Roberto, fratello di Ugo, lasciava spesso la sua Gilera nel cortile, ora, se
avrà modo di leggere queste righe, capirà cosa ha rischiato.
Dalla discesa che portava in
cortile, scendevamo con ogni sorta di trabiccolo, qualche automobilina a pedali
o camion abbastanza grande, ne ricordo uno con scritto “portata cento chili”,
poco più lungo di mezzo metro, ospitava il deretano dei più temerari, per
quanto portasse cento chili, non portava nessuna dicitura che spiegasse come
frenare, ne fece le spese il naso di mia sorella Monica. Frenò si, ricordo
bene, ma contro un muro di cemento che separava due rimesse. Dalla fronte al
mento non vi erano sporgenze, non sporgevano gli zigomi e nemmeno il naso,
tutto il suo volto diventò di un tondo blu da sembrare una extraterrestre.
In un’altra occasione mi
beccai anche una freccia in una spalla. Avevamo attrezzato alcuni archi
distruggendo un singolo ombrello, quindi sarebbe stato abbastanza conveniente mettere su una fabbrica di archi. Scendevo dalla discesa quando, spuntando
dallo spigolo, mi beccai una bacchetta d’ombrello sparata dall’arco di non
ricordo chi: rimase appesa e dovetti sfilarla. Non mi fece particolarmente
male, quindi, gliela restituii, senza alcun dubbio gli sarebbe stato
impossibile prendermi in un occhio, avevo una schiera d’angeli custodi lì a
controllarmi, dovevo solo sperare che il superlavoro non li conducesse ad
istanti di distrazione, evidentemente, avendo ora più di cinquant’anni, gli
angeli a me assegnati erano particolarmente attenti oppure si facevano di
qualche alcaloide decisamente eccitante.
Poverini, li vedo tirare un
fiato di sospiro quando, arrivato al secondo piano arrampicandomi dalla parte
esterna delle
ringhiere dei balconi, desistetti, lo stringere le bacchette di cui erano composte in quanto mi faceva male alle mani;. Ma, e qui c’è un grosso
ma, non so quando si accorsero che ero sceso solo per andare a prendere un paio
di guanti da lavoro; prima del “pratolàinfondo”, Luigino, o meglio, suo padre
Mario, aveva un pezzo di terra dove teneva galline e conigli nonché vari
attrezzi tra i quali, appunto, anche dei guanti.
da Googlemaps - Via Milano, 35 |
Tornato, con tutti gli angeli
intorno, questo ormai è assodato, mi arrampicai fino al quinto piano.
Fortunatamente lì abitavo, infatti si affacciò la mamma di Maurizio, mi urlò
qualcosa, era convinta che stessi passando dal balcone della mia camera a quello
della camera dei miei genitori. Con il sangue che correva all’impazzata e con
una concentrazione di adrenalina quasi vicino alla saturazione, entrai in casa
e mi straiai a terra soddisfatto. Gli angeli erano sudati, molto sudati.
Spesso ci si radunava per
andare in missione dilàdelponte, si arrivava fino al Motto o, qualche
chilometro più in là, al Laghet. Si tratta di un ristagno d’acqua appena più
grande di una pozzanghera. Vi si praticava la pesca sportiva, vicino c’era,
collegato da un breve canale, un vivaio dove venivano messe le trote destinate
agli ami dei gareggianti. Capitò che ci andai anche con mio fratello e mio
padre, nel girare intorno mi beccai un amo svolazzante dritto, dritto su una
palpebra, era chiaro ormai che avevo un culo pazzesco, avrebbe potuto beccarmi
in modo più pericoloso, fattostà che il pescatore, lasciata la canna a mio
padre, dovette sfilarmi l’amo.
Però quel luogo era
generalmente destinazione di noi buceta durante i pomeriggi di estrema
anarchia; il Laghet si trova a ridosso del pendio della montagna, evidentemente
esposto a nord, durante i mesi invernali non vede mai il sole tanto che si
formava un spesso strato di ghiaccio, dico si formava, infatti mi risulta che oggi non
succeda più: uno dei segnali che prova il riscaldamento globale in
aumento.
Non era mai come i laghi nordici, bello levigato e pronto per eventuali pattinatori. Con la superficie ondulata, piena di bozzi ma, se una destinazione pattinatoria professionale non l’aveva, aveva certamente quella dello spasso fatto di scivolate con le scarpe. Il freddo che coglieva i piedi si manifestava soprattutto con un famoso cerchio che stringeva l’estremità delle dita, sembrava che spuntassero da un’inesistente buco nei calzini. Capitò un pomeriggio dove alcuni ragazzi più grandi ma con il cervello di poco più grosso del nostro, trovarono il modo di scendere sulla superficie ghiacciata con una 500 dove fecero evoluzioni con nostro grande diletto.
Non era mai come i laghi nordici, bello levigato e pronto per eventuali pattinatori. Con la superficie ondulata, piena di bozzi ma, se una destinazione pattinatoria professionale non l’aveva, aveva certamente quella dello spasso fatto di scivolate con le scarpe. Il freddo che coglieva i piedi si manifestava soprattutto con un famoso cerchio che stringeva l’estremità delle dita, sembrava che spuntassero da un’inesistente buco nei calzini. Capitò un pomeriggio dove alcuni ragazzi più grandi ma con il cervello di poco più grosso del nostro, trovarono il modo di scendere sulla superficie ghiacciata con una 500 dove fecero evoluzioni con nostro grande diletto.
Io e il Luigi, tirando
boccioni di varie dimensioni, mettevamo alla prova la nostra mira tirando ad una bottiglia incastrata, il fatto che fosse bloccata con il collo in giù
la rendeva resistentissima alle sassate fino a quando, un sasso particolarmente
grosso tirato da Luigi, finalmente ebbe la meglio.
Crak! Cracrak! Cracracrak!
Io e Luigi saltammo come canguri fino a guadagnare la riva, il ghiaccio, sotto l’evidente sbalzo di pressione dovuto dall'ingresso repentino dell'aria sotto al ghiaccio, cominciò a creparsi lungo tutto il contorno del laghetto, il rumore ci impressionò talmente tanto che le ali sotto ai piedi diventarono d’aquila. Ma subito dopo, piano, piano, tastando con i piedi se fosse stata compromessa la solidità del ghiaccio, ci accorgemmo che nulla era successo che modificasse la possibilità di giocarci sopra, quindi, senza problema alcuno, ricominciammo le nostre attività.
Io e Luigi saltammo come canguri fino a guadagnare la riva, il ghiaccio, sotto l’evidente sbalzo di pressione dovuto dall'ingresso repentino dell'aria sotto al ghiaccio, cominciò a creparsi lungo tutto il contorno del laghetto, il rumore ci impressionò talmente tanto che le ali sotto ai piedi diventarono d’aquila. Ma subito dopo, piano, piano, tastando con i piedi se fosse stata compromessa la solidità del ghiaccio, ci accorgemmo che nulla era successo che modificasse la possibilità di giocarci sopra, quindi, senza problema alcuno, ricominciammo le nostre attività.
Passando per la zona
industriale e per la Madonna
dell’Occhio, si tornava a casa distrutti e con i piedi che sembrava avessero
preso fuoco, la ripresa di una normale circolazione del sangue e la lunga camminata
eliminavano il principio di congelamento che attanagliava le dita, riportando i
nostri eroi ad una condizione che gli permetteva di ricominciare tutto daccapo.
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