venerdì 21 febbraio 2014

La stazione

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La stazione si trova in una zona di Gravellona che sembrava lontanissima, ovviamente perché, quasi sempre, la si raggiungeva a piedi.
Non si andava a prender treni, ma a guardarli; si camminava lungo le scarpate della linea ferroviaria per cercare chiodini e, quasi senza accorgercene, ci trovavamo al passaggio a livello di Ornavasso, da dove, via Campone, tornavamo indietro.
Al Campone c’era una grossa discarica di spazzatura, sempre con qualche focolare acceso, era un buon metodo, allora, ma anche adesso,  per mantenere bassi i volumi e per poter conferire sempre nuovo materiale senza saturare il sito. Una nostra visita era quasi d’obbligo, una volta giunti lì. La curiosità governava la nostra attenzione, come sempre, dopotutto. Una cosa che mi attirava era trovare bottiglie di vetro deformate dal continuo, lento, ardere dei cumuli. Le bottiglie, posate su pietre o barattoli, nello scaldarsi si ammorbidivano e vi aderivano dando vita a sculture a volte veramente attraenti.
Altre volte trovavamo pezzi utili ad aggiustare o modificare le biciclette che, non essendo mai dotate di buoni copertoni, venivano utilizzate fino a quando, questi, resistevano, a volte anche avvolti, nei punti più consumati da una brusca frenata, con adesivi o pezze incollate, dentro e fuori; spesso era sufficiente un buon cerchione, il buon Dario, vigile costantemente vigile in crociera, una volta mi urlò di fermarmi proprio perché stavo viaggiando velocemente, passando da via Milano a via Marconi, con il fragore metallico dei cerchioni che, da lì a poco, non protetti dalla solita gomma, sarebbero collassati
A volte si tornava fino a casa facendo rotolare, a turno, un copertone d’automobile.
Una volta, appena giunti sotto casa, prendemmo un gatto e, trattenendolo all’interno con una pezza annodata, lo facemmo rotolare per la discesa iniziale del vecchio tratto di via Alluvione che si trova sotto casa di Luigino.
Immaginare come camminasse il povero gatto, appena riusciva a scappare da quella giostra forzata, è abbastanza facile.
Purtroppo è normale, per i bimbi, usare le proprie angherie per  fare esperimenti con gli animali e con le loro reazioni o almeno, era cosa normale.
Sul muretto che divideva via Alluvione dalla Roggia ci si distendeva armati di cappi realizzati con fili d’erba: vittime di queste pazienti attese erano le lucertole.
Luigi, prima del Pratolàinfondo, disponeva di un pezzo di terra dove Mario, suo padre, e anche suo zio Ianni, lasciavano alle dipendenze del tempo e della metereologia, vecchie automobili dimesse. Quando il clima non era dei migliori ma ormai ci si trovava in giro, si passavano ore e ore all’interno di queste vecchie auto a fantasticare su cosa avremmo fatto da grandi e sui viaggi che avremmo voluto intraprendere, perché, io e Luigino, avremmo passato tutta la nostra vita insieme e, quasi sicuramente, avremmo lavorato in una qualche attività tutta nostra, non sapevamo che la vita tiene per nulla in conto i desideri dei piccini, o quasi.
La nostra preferita era un’Anglia bicolore, avorio e nocciola, praticamente un cremino, con il vetro posteriore caratteristicamente inclinato al contrario, puzzolente di plastiche vecchie, tappezzerie ammuffite e, soprattutto, di ruggine, ma diveniva, di volta in volta, elicottero, camion o nave.
Nel "Cortile del Pratolàinfondo", questo era il nome di quel piccolo appezzamento, davamo una mano a Mario anche a sistemare l’orto o a governare galline, conigli e tacchini, cosa che faceva divertire oltremodo il piccolo Rocki, il pezzato, piccolo botolo di Luigino; come si entrava nel pollaio, cominciava a correre all’impazzata appresso a starnazzanti galline che, dimentiche del fatto di non poter volare, si cimentavano in balzi supportati da sbattute d’ali che se fossero state un poco più lunghe, le avrebbe sicuramente portate a librarsi come era nel loro irrealizzabile desiderio.
Prendemmo un tacchino e, ovviamente di nascosto, raggiungemmo il palazzo del Luigino. Saliti nel sottotetto, ci affacciammo da uno degli abbaini per buttare il volatile di sotto. Le ali, decisamente sproporzionate rispetto al corpo, rallentarono parecchio il volo ma, il poveretto, cadde a capofitto nell’orto del Lagostina che si trovava, pochi metri più in là, dall’altra parte della rampa che portava al Pontediferro.
Scendemmo a rottadicollo per tutte le scale per non permettere al tacchino di scappare, cosa che avrebbe voluto sicuramente fare. Riuscimmo ad acchiapparlo e lo riportammo al pollaio.
Non so se è bene pubblicare queste righe, e vero che i tacchini non sono tanto facilmente raggiungibili dai bimbi di oggi e che abbiano da svagarsi con simulazioni al computer forse è meglio che usare gatti e volatili vivi.
Nei pressi della ferrovia, invece, le uniche nostre vittime, erano monete e chiodi, più spesso chiodi, le monete, per quanto di valore minimo, le usavamo per promuovere la carie, però, qualche volta, soprattutto quelle da cinque o da dieci lire, le attaccavamo con il nastro adesivo alle rotaie laddove si potevano attraversare ad un passaggio a livello che si trovava a poche decine di metri dalla stazione. Ci si allontanava e con il mento appoggiato alle braccia piegate e posate sulla sbarra bianca e rossa, (allora si arrivava giusto a quell’altezza), si attendeva la locomotiva. Appena passata cercavano le monete che il passaggio del treno aveva fatto balzare lontano. Sulla rotaia rimaneva impressa l’immagine della faccia della moneta che vi era posata sopra mentre dalla  moneta scompariva quasi completamente; ne risultavano delle piastrine metalliche oblunghe, non se ne poteva fare niente se non ammirarne l’unicità. Con i chiodi era meglio, dopo schiacciati dal treno, si appiattivano contorcendosi e allungandosi, diventando salgariani Kriss. Fino all’età di dieci o undici anni, abbiamo avuto l’onore di poter vedere ancora in attività quelle sbuffanti motrici che, bruciando carbone, rimpicciolirono il mondo.
Se dovevamo andare semplicemente dall’altra parte della linea ferroviaria ma le sbarre erano abbassate o si stavano abbassando, ci attardavamo ogni volta per il semplice gusto di veder passare il treno.
Appena al di là, sulla destra, scendeva lievemente una strada e poche centinaia di metri dopo c’era il deposito di un “rutamat”. Il deposito di ferrivecchi, era circondato solamente da una rete metallica nella quale trovavamo sempre un varco, (altrimenti lo aprivamo noi), dal quale accedevamo per procurarci pezzi di ferro e i costantemente necessari pezzi per le biciclette, ci si andava sempre di domenica: c’era meno gente in giro e il deposito era incustodito.
La stazione questo era, un posto da dove partire, fuori, e anche un posto da dove partire, dentro, bastava guardarla una stazione o un treno, e, soprattutto noi piccoli, si cominciava a viaggiare.
Oggi, invece, l’uomo ha generato luoghi, o meglio, nonluoghi, dove le persone si radunano per far compere e dove, chi desidera vendere, organizza eventi musicali o altro. Quando ero piccino io, invece, oltre alla stazione,  c’era un luogo e luogo era, chiamato La pineta. Prima del ponte che attraversa il Toce, dove ora c’è lo svincolo autostradale,  c’era una piccola pineta, lunga poche centinaia di metri, ospitava feste e avvenimenti con tanto di canti e balli. L’odore delle salsicce e della polenta o del riso, avvolgeva tutto, bimbi giocosi e adulti avvinazzati che davano sfogo ai loro movimenti e al vociare. La Festadellunità era un’avvenimento atteso anche da noi più piccoli, non vi si trovava giostre o quant’altro adatto a noi, ma il clima di manifesta gioia espressa dagli adulti, ci appagava lo stesso. Canti e musica, quasi sempre, anzi, sempre, liscio, erano eseguiti da gruppi che facevano di tutto per assomigliare ai Casadei, vere star dell’epoca,  sia nell’abbigliamento degli uomini, che nelle gambe scoperte delle donne dove l’apoteosi di paillettes e lustrini raggiungeva il massimo esprimibile.

Quella pineta non c’è più, nemmeno si saprebbe come riprodurla anche se ancora viva nel fantasticare dei bimbi d’allora e in molti rimpiangono quel modo di gioire eppure, non so se, a parte il romanticismo dettato dai ricordi, oggi ci si divertirebbe nello stesso modo, sicuramente non si potrebbe parlare al telefonino comprendendo ciò che, dall’altra parte dell’etere, non possono fare mai a meno di riferirci, schiavi come siamo di un’apparecchio che ai tempi della Pineta e della Stazione si vedeva solamente nei film di fantascienza.

2 commenti:

  1. Ottimo scrittore, queste immagini raccontate evocano un mondo che sembra uscito da un lontano passato quando in realtà sono passati pochi decenni...

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  2. Non sono uno scrittore ma una persona affetta da graforrea. Grazie davvero per la visita.

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