Stazione di Gravellona Toce - 1973 |
In stazione ci andavo per
puro svago tranne quando si partiva per Bolzano. Allora si giungeva a quella di
Fondotoce con l’autobus. Anche in quella stazione ci andavo per svago con
Luigino e immancabile era la visita del modellino di transatlantico esposto nel
bar, quindi era un luogo familiare, però, quando ci andavo con papà e mamma
carichi di valige, l’effetto era completamente diverso. Una piacevole ansia si
impossessava di tutti i sensi, i recettori, tesi verso la massima attenzione, pasteggiavano
dei volti in attesa alla biglietteria o sul marciapiedi vicino ai binari.
Quattrocento chilometri diminuivano gradualmente fino a giungere dove le nonne
ci aspettavano per miracolosi abbracci. Capivo di essere quasi arrivato a
Bolzano la dove la valle dell’Adige si stringe fino a far passare solamente
l’acqua del fiume, l’autostrada, la statale e la ferrovia; una sull’altra si
accavallavano e separano per passare in quella strettoia che separa il Trentino
dall’Alto Adige, terra natìa.
La stazione di Gravellona,
invece, cominciai a frequentarla come viaggiatore quando mi iscrissi al liceo
artistico e, per poterlo frequentare, dovevo arrivare fino a Novara. Ci
incontravo Pietro, mio coetaneo che però, non essendo mai stato bocciato,
andava già per il secondo anno.
Su quel treno, che nel
frattempo si era trasformato in Littorina, si percorreva una linea con un solo
binario quindi, di quando in quando, per non scontrarsi con treni che andavano
in senso opposto, si fermava in attesa. Su quel treno conobbi un sacco di
persone e chissà quante altre ne avrei conosciute se, invece di interrompere
gli studi per partire definitivamente verso sud, oltrepassando di parecchio
Novara, avessi continuato a vivere a Gravellona, due di loro ricordo
particolarmente, Patrizia e Paolo, ora affermato pittore di Villadossola.
Era il 1977quando, per
raggiungere mio padre, partii per Cellole, paese del casertano di cui nemmeno
conoscevo l’esistenza.
Rimasi con lui dalle vacanze
di Natale fino a marzo inoltrato, quando, per far scendere mia madre in un
estremo tentativo di riconciliazione matrimoniale, tornai per alcuni mesi a
Gravellona.
Padre e madre tentarono di
ricomporre la medesima famiglia quindi mamma tornò al nord per approntare
quello che sarebbe stato il definitivo trasloco. Dovevo nuovamente tornare a
Cellole ma, a quel punto, conscio di dover abbandonare Gravellona per sempre,
in uno degli immancabili pomeriggi insieme a Luigino, organizzammo una
ubriacata d’addio guarnita di pane, formaggio e registratore a cassetta.
Avviata la registrazione ci producemmo in una sequenza infinita di risate e
rutti, volevamo esorcizzare la tristezza dell’immancabile addio che ci saremmo
dovuti dare da lì a qualche giorno. Del viaggio che ne seguì, ho scritto già
qualcosa: http://imieisolchi.blogspot.it/2013/10/un-polentone-minturo.html.
Nel 1980, durante un viaggio
estivo che mi portò nuovamente a Gravellona, cercai l’opportunità di poter
lavorare in quelli che erano i luoghi in cui ero cresciuto. Già tipografo da un
paio d’anni, feci il giro di tutte le tipografie della zona: una mi offrì la
possibilità di esprimermi in una prova d’arte per tastare le mie capacità, era
la tipografia Saccardo di Ornavasso. Tornai a Cellole con l’idea che forse mi
avrebbero chiamato, in quanto, da lì a poco, uno dei fratelli Saccardo, doveva
subire un intervento chirurgico, per questo motivo avevano bisogno di qualcuno
che lo sostituisse; non ci credevo molto, avevo solamente diciotto anni e avrei
dovuto sostituire uno molto più grande ed esperto.
Era il novembre di quello
stesso anno quando mi arrivò una telefonata dove mi si chiedeva se ero
disponibile a trasferirmi ad Ornavasso. Che feci? Accettai al volo e nel giro
di poche ore ero pronto per partire.
Per un paio di mesi abitai
presso Luigino, poi affittai un piccolo appartamento al quale si accedeva da un
ampio cortile. Per entrare nel cortile si oltrepassava un ampio portone che dà
direttamente su via Alfredo di Dio, allora era l’arteria principale che portava
al Sempione, autotreni a automobili passavano a dieci centimetri dalle mie
finestre che essendo a piano terra, ovviamente, erano costantemente chiuse.
Utilizzando steet view giunti al numero civico 78, quello che corrisponde, più
o meno, a quello dove abitavo, si può notare un autocarro che, transitando, si
trova a pochissimi centimetri da alcune finestre sprangate e parzialmente
chiuse da lamiere, ebbene, quelle erano le mie finestre, dalle quali, per tutta
la notte, entrava un rumore tale da impossibilitare un normale sonno.
In quella tipografia mi
trovai bene, tutti mi trattavano bene e facevo molte ore di straordinario,
qualche soldo in più faceva veramente comodo. C’era sempre da fare, a tutte le
ore del giorno, anche quando la tipografia era chiusa, ci si ritrovava in due o
tre persone per mettere elastici intorno a mazzette di soldi in quantità
enormi, pedane intere di banconote da sistemare per la spedizione utilizzando
elastici contenuti in sacchi alti mezzo metro. Si stampavano i soldi di un
famoso gioco di società, il “Monopoli”.
Vicino a dove abitavo c’era
la sede della Croce Verde, associazione di pronto soccorso dove spesso, facendo
da volontario i turni di notte, dormivo in un letto decisamente più silenzioso
che però mi costava levatacce notturne per accorrere a richieste d’aiuto.
La mia prima uscita fu una
vera avventura.
Stavo facendo il turno di
notte insieme a due compagni, uno era Antonio, fratello di Luigino.
Si trattava di effettuare un
trasporto d’urgenza a causa di un malore di una persona anziana. Giunti sul
posto ci accorgemmo subito che sarebbe stata un’impresa; una piccola
costruzione a due piani, all’interno una stretta scala composta da scalini
particolarmente alti. Il vecchino stava sopra. Dovemmo attaccarlo con delle
cinghie ad una barella e passarcelo, praticamente in verticale, oltrepassando i
passamano.
Entrati in ambulanza staccai
il tubo dell’ossigeno da una piccola bombola portatile che avevamo incastrato
sotto le cinghie per infilargli nel naso i tubicini presenti nell’impianto
dell’ambulanza stessa. Bloccata la barella si parte in velocità verso
l’ospedale di Omega. Ovviamente, essendo piena notte, facemmo presto.
Arrivati all’ospedale,
dall’esterno aprono le porte posteriori, metto comodo al traspordo il vecchino
che non prese conoscenza per tutto il tratto e sgancio la barella. Gli
inservienti dell’ospedale tirano il lettino e a quel punto, il vecchino
comincia a gemere, io che stavo già scendendo cercavo di capire cosa avesse, ci
volle qualche secondo per capire che mi ero dimenticato di sfilare i tubicini
dal naso, quindi, praticamente agganciato all’ambulanza il poveretto veniva
trattenuto per le narici mentre gli infermieri non capendo, continuavano a
tirare.
Tutto si risolse per il
meglio però quel fatto provocò risate per parecchi giorni.
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