domenica 23 febbraio 2014

Viaggi

Stazione di Gravellona Toce - 1973


In stazione ci andavo per puro svago tranne quando si partiva per Bolzano. Allora si giungeva a quella di Fondotoce con l’autobus. Anche in quella stazione ci andavo per svago con Luigino e immancabile era la visita del modellino di transatlantico esposto nel bar, quindi era un luogo familiare, però, quando ci andavo con papà e mamma carichi di valige, l’effetto era completamente diverso. Una piacevole ansia si impossessava di tutti i sensi, i recettori, tesi verso la massima attenzione, pasteggiavano dei volti in attesa alla biglietteria o sul marciapiedi vicino ai binari. Quattrocento chilometri diminuivano gradualmente fino a giungere dove le nonne ci aspettavano per miracolosi abbracci. Capivo di essere quasi arrivato a Bolzano la dove la valle dell’Adige si stringe fino a far passare solamente l’acqua del fiume, l’autostrada, la statale e la ferrovia; una sull’altra si accavallavano e separano per passare in quella strettoia che separa il Trentino dall’Alto Adige, terra natìa.
La stazione di Gravellona, invece, cominciai a frequentarla come viaggiatore quando mi iscrissi al liceo artistico e, per poterlo frequentare, dovevo arrivare fino a Novara. Ci incontravo Pietro, mio coetaneo che però, non essendo mai stato bocciato, andava già per il secondo anno.
Su quel treno, che nel frattempo si era trasformato in Littorina, si percorreva una linea con un solo binario quindi, di quando in quando, per non scontrarsi con treni che andavano in senso opposto, si fermava in attesa. Su quel treno conobbi un sacco di persone e chissà quante altre ne avrei conosciute se, invece di interrompere gli studi per partire definitivamente verso sud, oltrepassando di parecchio Novara, avessi continuato a vivere a Gravellona, due di loro ricordo particolarmente, Patrizia e Paolo, ora affermato pittore di Villadossola.
Era il 1977quando, per raggiungere mio padre, partii per Cellole, paese del casertano di cui nemmeno conoscevo l’esistenza.
Rimasi con lui dalle vacanze di Natale fino a marzo inoltrato, quando, per far scendere mia madre in un estremo tentativo di riconciliazione matrimoniale, tornai per alcuni mesi a Gravellona.
Padre e madre tentarono di ricomporre la medesima famiglia quindi mamma tornò al nord per approntare quello che sarebbe stato il definitivo trasloco. Dovevo nuovamente tornare a Cellole ma, a quel punto, conscio di dover abbandonare Gravellona per sempre, in uno degli immancabili pomeriggi insieme a Luigino, organizzammo una ubriacata d’addio guarnita di pane, formaggio e registratore a cassetta. Avviata la registrazione ci producemmo in una sequenza infinita di risate e rutti, volevamo esorcizzare la tristezza dell’immancabile addio che ci saremmo dovuti dare da lì a qualche giorno. Del viaggio che ne seguì, ho scritto già qualcosa: http://imieisolchi.blogspot.it/2013/10/un-polentone-minturo.html.
Nel 1980, durante un viaggio estivo che mi portò nuovamente a Gravellona, cercai l’opportunità di poter lavorare in quelli che erano i luoghi in cui ero cresciuto. Già tipografo da un paio d’anni, feci il giro di tutte le tipografie della zona: una mi offrì la possibilità di esprimermi in una prova d’arte per tastare le mie capacità, era la tipografia Saccardo di Ornavasso. Tornai a Cellole con l’idea che forse mi avrebbero chiamato, in quanto, da lì a poco, uno dei fratelli Saccardo, doveva subire un intervento chirurgico, per questo motivo avevano bisogno di qualcuno che lo sostituisse; non ci credevo molto, avevo solamente diciotto anni e avrei dovuto sostituire uno molto più grande ed esperto.
Era il novembre di quello stesso anno quando mi arrivò una telefonata dove mi si chiedeva se ero disponibile a trasferirmi ad Ornavasso. Che feci? Accettai al volo e nel giro di poche ore ero pronto per partire.
Per un paio di mesi abitai presso Luigino, poi affittai un piccolo appartamento al quale si accedeva da un ampio cortile. Per entrare nel cortile si oltrepassava un ampio portone che dà direttamente su via Alfredo di Dio, allora era l’arteria principale che portava al Sempione, autotreni a automobili passavano a dieci centimetri dalle mie finestre che essendo a piano terra, ovviamente, erano costantemente chiuse. Utilizzando steet view giunti al numero civico 78, quello che corrisponde, più o meno, a quello dove abitavo, si può notare un autocarro che, transitando, si trova a pochissimi centimetri da alcune finestre sprangate e parzialmente chiuse da lamiere, ebbene, quelle erano le mie finestre, dalle quali, per tutta la notte, entrava un rumore tale da impossibilitare un normale sonno.
In quella tipografia mi trovai bene, tutti mi trattavano bene e facevo molte ore di straordinario, qualche soldo in più faceva veramente comodo. C’era sempre da fare, a tutte le ore del giorno, anche quando la tipografia era chiusa, ci si ritrovava in due o tre persone per mettere elastici intorno a mazzette di soldi in quantità enormi, pedane intere di banconote da sistemare per la spedizione utilizzando elastici contenuti in sacchi alti mezzo metro. Si stampavano i soldi di un famoso gioco di società, il “Monopoli”.
Vicino a dove abitavo c’era la sede della Croce Verde, associazione di pronto soccorso dove spesso, facendo da volontario i turni di notte, dormivo in un letto decisamente più silenzioso che però mi costava levatacce notturne per accorrere a richieste d’aiuto.
La mia prima uscita fu una vera avventura.
Stavo facendo il turno di notte insieme a due compagni, uno era Antonio, fratello di Luigino.
Si trattava di effettuare un trasporto d’urgenza a causa di un malore di una persona anziana. Giunti sul posto ci accorgemmo subito che sarebbe stata un’impresa; una piccola costruzione a due piani, all’interno una stretta scala composta da scalini particolarmente alti. Il vecchino stava sopra. Dovemmo attaccarlo con delle cinghie ad una barella e passarcelo, praticamente in verticale, oltrepassando i passamano.
Entrati in ambulanza staccai il tubo dell’ossigeno da una piccola bombola portatile che avevamo incastrato sotto le cinghie per infilargli nel naso i tubicini presenti nell’impianto dell’ambulanza stessa. Bloccata la barella si parte in velocità verso l’ospedale di Omega. Ovviamente, essendo piena notte, facemmo presto.
Arrivati all’ospedale, dall’esterno aprono le porte posteriori, metto comodo al traspordo il vecchino che non prese conoscenza per tutto il tratto e sgancio la barella. Gli inservienti dell’ospedale tirano il lettino e a quel punto, il vecchino comincia a gemere, io che stavo già scendendo cercavo di capire cosa avesse, ci volle qualche secondo per capire che mi ero dimenticato di sfilare i tubicini dal naso, quindi, praticamente agganciato all’ambulanza il poveretto veniva trattenuto per le narici mentre gli infermieri non capendo, continuavano a tirare.

Tutto si risolse per il meglio però quel fatto provocò risate per parecchi giorni.

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