dietro il cancello che dava su via Alluvione |
Non ricordo se già dalla
prima elementare venimmo ospitati, con le aule, presso la “Casa del Popolo”, mi
sembra dalla seconda in poi, comunque, le quattro sezioni di chi era nato nel
1962 si ritrovarono in quello che probabilmente era un appartamento. Si
salivano due rampe di scale: di fronte, una porta a vetri dava su un balcone
che portava nell’appartamento di chi, giù in strada nel piazzale antistante,
gestiva un distributore di benzina; sulla destra una porta dava su un
disimpegno dal quale si poteva andare nelle aule. La prima a destra era la mia,
poi veniva quella della Spezia, quella della Frattini (dove c’era il Luigino) e
poi quella della Nava. La mia maestra, Caterina, la chiamavamo maestra Ina.
Tutto il 1962 gravellonese si trovava in quei metri quadri mentre il resto dei
ragazzi frequentava presso l’edificio elementare “ufficiale”.
I minuti di ricreazione si
srotolavano tra il disimpegno e le scale, i maschietti si rotolavano a terra,
fingendo ltte e battaglie, con la non tanto celata intenzione di guardar sotto
alle gonne delle bimbe, nonché a quelle della bionda moglie del benzinaio. Quando
le condizioni meteo lo permettevano, si scendeva in cortile, questo si
affacciava sull’esterno di un lungo capannone, sede della bocciofila e delle
teatrali virtù dei bimbi che, sotto la guida di instancabili maestre, si
prodigavano in pieces di cui, in parte, ricordo qualcosa. Una in particolare mi
vide nei panni di uno di quegli osti carogna che non vollero ospitare Gesù e
famiglia giunti in città per il censimento. Ero l’oste di un improbabile “Cervo
Bianco” e mandavo bellamente da altre parti Giuseppe con il suo ciuccio carico
di moglie e figlio. Mi sentivo responsabile “del freddo e del gelo” che colse
la famigliola nel mediorientale deserto.
Il Pedolazzi, un pomeriggio
che ci vedeva perder tempo in orari extracurriculari, anzi,
pernullacurriculari, mi chiamò all’improvviso, mi giro e un sasso tirato al
volo con un piede mi prese in pieno l’incisivo laterale destro, ancora ne porto
il segno essendosi scheggiato nella parte interna, uno delle tante prove che
veramente ho abitato a Gravellona. Sergio lo conosco da quando frequentavamo
l’asilo, io da poco venivo da una delle lunghe permanenze dalle nonne a
Bolzano, parlavo quindi con un’inflessione veneta, quella di Bolzano, appunto, lui,
per prendermi in giro proprio a causa di quell’inflessione, mi chiamava “saponèta”,
marcando su quella singola “t” tipica dell’italico nordest; da allora abbiamo
camminato spesso insieme sulle strade di Gravellona.
Dal bocciodromo alla latteria
i metri erano poche decine, questa si trovava nella piazza del municipio che
dava le spalle alla Casa del Popolo, di fronte alla latteria una fontana
futuristica, per allora, ornata da un’agave. Nel salire sulla fontana, non mi
avvidi della punta di una delle foglie di quella strana pianta che voleva
passarmi attraverso, fortunatamente mi bucò solamente un fianco ma il dolore fu
acutissimo, più per la carica batterica di cui era portatrice che per il foro
stesso, diventò una delle tante croste che toglievo e che si riformavano.
Un po’ più in su, verso
Pedemonte, c’era il campetto dell’oratorio al quale, però, si accedeva da via
Liberazione. Il cancello d’ingresso era sulla sinistra della sede dell’ACLI,
sopra la quale viveva don Erminio, il giovane prete che supportava il più
vecchio don Angelo.
Mi trovavo spesso da lui a
produrre manifesti disegnati e scritti a mano che annunciavano le varie
attività dell’oratorio, dopo averlo aiutato più volte, mi regalò una scatola
con la completa attrezzatura utile per lavori al traforo.Me ne innamorai subito
infatti conoscevo quel tipo di attività di cui era cultore il padre di Valerio,
la prima persona che conobbi con il problema che porta ad un intervento alle
corde vocali che conduce ad un
particolare modo di parlare. Ricordo una persona cara e piena di
pazienza.
All’oratorio era d’obbligo
scorticarsi ginocchia e gomiti inseguendo palloni d’ogni sorta, quasi sempre
giocavo in porta e nel tuffarmi era impossibile scansare tutte le pietre e,
talvolta, anche le pozzanghere. Prima d’andarci avevo l’accortezza di
controllare che non ci fosse un certo Mariolino; un ragazzetto poco più grande
di me ma dalla prepotenza decisamente gigantesca, non mi piaceva quindi evitavo
di trovarmi ad occupare i suoi medesimi spazi, Gravellona era grandissima, un
posto senza Mariolino sempre si trovava.
Ad esempio, via Stampa, la
percorrevo quasi fosse un posto esotico, alcuni amici abitavano in quella zona.
Da via Stampa si prendeva via Villette che portava ad un’altra via, mi sembra
Resiga o Rassega spuntava su via Sempione, là dove Gravellona puntava verso
Ornavasso passando dalla zona Campone. Poco prima dell’incrocio, sulla
sinistra, un lavatoio faceva mostra di se facendosi annunciare dal vociare
delle donne che vi lavavano i panni, era tappa fissa per abbeverarci prima di
avventurarci, solitamente in bicicletta, verso la “Frana” dove i motorizzati si
esprimevano con salti e acrobazie, mentre noi biciclettari sbattevamo a terra
ginocchia e fronti scendendo i ripidi pendii che ogni volta risalivamo
spingendo a mano quelle che, con uno sforzo di fantasia e di cartoline tra i
raggi, diventavano le nostre motocross.
Con la bicicletta, sempre in
compagnia del Luigino, salivamo fino a Casale per menarci giù fino a
Gravellona, sparati come razzi, come razzi senza freni; una volta la catena mi
si schiantò bloccando improvvisamente la ruota posteriore che, prima di
riuscire a fermarmi, tracciò un lungo serpente nero lungo la strada. Qualcosa
da quell’esperienza la imparai, imparai che era meglio avere una catena con una
maglia apribile all’occorrenza, infatti, le volte successive scendevo si con la
catena, però in tasca, andavo veloce senza il rischio di consumare il
copertone.
La velocità faceva impazzire
entrambi, infatti, andavamo insieme a Cavandone dove il Minazzi ci dotò di
impalcatura dentale, una volta ci andammo attrezzati di pattini a rotelle.
Luigino era più fortunato, le ruote dei suoi pattini erano di gomma mentre i
miei avevano ruote di bachelite o di qualche altro materiale ugualmente duro,
questo provocava un vibrare alle mie caviglie che persisteva anche molto dopo
l’arrivo in pianura, da Cavandone scendevamo fino all’incrocio con la strada
che porta dentro Pallanza, il dolore più forte ce lo procuravamo ai polsi, il
continuo fermarci contro muretti e guard-rail ad ogni curva troppo stretta, non
essendo questi dotati di cuscini o altro, affidava alla sola elasticità delle
giunture, la possibilità di non finire fuori strada.
Dire che eravamo matti non
descrive proprio bene quei due mocciosi che eravamo.
Cavandone, dopo la visita
dentistica di rito, mentre i nostri genitori si abbandonavano alle chiacchiere
d’adulti, ci vedeva camminare sui tetti delle case, addossate una all’altra
offrivano un percorso senza alcuna sorta d’interruzione se non dove, qualche metro
più sotto, c’era una via. Più che camminare, la paura di essere scoperti, ci
faceva correre su terrazzi e tegole, inventammo il parkour?
Mentre stavamo sulla sommità
di un tetto, con il piede destro su uno spiovente mentre il sinistro posava
sull’altro, Luigino saltò su una finestra aperta. Un suo strillo richiamò la
mia attenzione; vidi il motivo di quell’urlare una volta arrivato presso di
lui. Stava in piedi sul davanzale e, all’interno, il pavimento non c’era se non
a livello di strada, parecchi metri sotto. La casa, evidentemente abbandonata
da tempo, mancava quasi completamente degli impiantiti, dei quali restavano
poche tavole e travi. Anche in quel caso gli angeli che ci avevano in custodia
dovettero prendersi parecchie camomille, chissà se gli vengono riconosciuti gli
straordinari?
Come sono belli i ricordi!!!! Cosa avranno da ricordare i bambini di oggi tra play station e computer?
RispondiEliminaPerò, che pellacce che eravate!!!!! :-)
Ricorda che play station e computer glieli stiamo fornendo noi, anche per procurarci di che mangiare producendoli. Quello che manca, forse, è la nostra interazione con loro, una volta magari era fatta di rimproveri e limitazioni, ma qualcosa c'era.
RispondiEliminaIo il mio contributo cerco di darlo.
Un abbraccio