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La stazione si trova in una
zona di Gravellona che sembrava lontanissima, ovviamente perché, quasi sempre,
la si raggiungeva a piedi.
Non si andava a prender
treni, ma a guardarli; si camminava lungo le scarpate della linea ferroviaria
per cercare chiodini e, quasi senza accorgercene, ci trovavamo al passaggio a
livello di Ornavasso, da dove, via Campone, tornavamo indietro.
Al Campone c’era una grossa
discarica di spazzatura, sempre con qualche focolare acceso, era un buon
metodo, allora, ma anche adesso, per
mantenere bassi i volumi e per poter conferire sempre nuovo materiale senza
saturare il sito. Una nostra visita era quasi d’obbligo, una volta giunti lì.
La curiosità governava la nostra attenzione, come sempre, dopotutto. Una cosa
che mi attirava era trovare bottiglie di vetro deformate dal continuo, lento,
ardere dei cumuli. Le bottiglie, posate su pietre o barattoli, nello scaldarsi
si ammorbidivano e vi aderivano dando vita a sculture a volte veramente
attraenti.
Altre volte trovavamo pezzi
utili ad aggiustare o modificare le biciclette che, non essendo mai dotate di
buoni copertoni, venivano utilizzate fino a quando, questi, resistevano, a
volte anche avvolti, nei punti più consumati da una brusca frenata, con adesivi
o pezze incollate, dentro e fuori; spesso era sufficiente un buon cerchione, il
buon Dario, vigile costantemente vigile in crociera, una volta mi urlò di
fermarmi proprio perché stavo viaggiando velocemente, passando da via Milano a
via Marconi, con il fragore metallico dei cerchioni che, da lì a poco, non
protetti dalla solita gomma, sarebbero collassati
A volte si tornava fino a
casa facendo rotolare, a turno, un copertone d’automobile.
Una volta, appena giunti
sotto casa, prendemmo un gatto e, trattenendolo all’interno con una pezza
annodata, lo facemmo rotolare per la discesa iniziale del vecchio tratto di via
Alluvione che si trova sotto casa di Luigino.
Immaginare come camminasse il
povero gatto, appena riusciva a scappare da quella giostra forzata, è
abbastanza facile.
Purtroppo è normale, per i bimbi, usare le proprie angherie per fare
esperimenti con gli animali e con le loro reazioni o almeno, era cosa normale.
Sul muretto che divideva via
Alluvione dalla Roggia ci si distendeva armati di cappi realizzati con fili
d’erba: vittime di queste pazienti attese erano le lucertole.
Luigi, prima del
Pratolàinfondo, disponeva di un pezzo di terra dove Mario, suo padre, e anche
suo zio Ianni, lasciavano alle dipendenze del tempo e della metereologia,
vecchie automobili dimesse. Quando il clima non era dei migliori ma ormai ci si
trovava in giro, si passavano ore e ore all’interno di queste vecchie auto a
fantasticare su cosa avremmo fatto da grandi e sui viaggi che avremmo voluto
intraprendere, perché, io e Luigino, avremmo passato tutta la nostra vita insieme
e, quasi sicuramente, avremmo lavorato in una qualche attività tutta nostra,
non sapevamo che la vita tiene per nulla in conto i desideri dei piccini, o
quasi.
La nostra preferita era
un’Anglia bicolore, avorio e nocciola, praticamente un cremino, con il vetro
posteriore caratteristicamente inclinato al contrario, puzzolente di plastiche
vecchie, tappezzerie ammuffite e, soprattutto, di ruggine, ma diveniva, di
volta in volta, elicottero, camion o nave.
Nel "Cortile del
Pratolàinfondo", questo era il nome di quel piccolo appezzamento, davamo una
mano a Mario anche a sistemare l’orto o a governare galline, conigli e
tacchini, cosa che faceva divertire oltremodo il piccolo Rocki, il pezzato,
piccolo botolo di Luigino; come si entrava nel pollaio, cominciava a correre
all’impazzata appresso a starnazzanti galline che, dimentiche del fatto di non
poter volare, si cimentavano in balzi supportati da sbattute d’ali che se
fossero state un poco più lunghe, le avrebbe sicuramente portate a librarsi come
era nel loro irrealizzabile desiderio.
Prendemmo un tacchino e,
ovviamente di nascosto, raggiungemmo il palazzo del Luigino. Saliti nel
sottotetto, ci affacciammo da uno degli abbaini per buttare il volatile di
sotto. Le ali, decisamente sproporzionate rispetto al corpo, rallentarono
parecchio il volo ma, il poveretto, cadde a capofitto nell’orto del Lagostina che si trovava, pochi metri più in là, dall’altra parte della rampa che portava
al Pontediferro.
Scendemmo a rottadicollo per
tutte le scale per non permettere al tacchino di scappare, cosa che avrebbe
voluto sicuramente fare. Riuscimmo ad acchiapparlo e lo riportammo al pollaio.
Non so se è bene pubblicare
queste righe, e vero che i tacchini non sono tanto facilmente raggiungibili dai
bimbi di oggi e che abbiano da svagarsi con simulazioni al computer forse è
meglio che usare gatti e volatili vivi.
Nei pressi della ferrovia,
invece, le uniche nostre vittime, erano monete e chiodi, più spesso chiodi, le
monete, per quanto di valore minimo, le usavamo per promuovere la carie, però,
qualche volta, soprattutto quelle da cinque o da dieci lire, le attaccavamo con
il nastro adesivo alle rotaie laddove si potevano attraversare ad un
passaggio a livello che si trovava a poche decine di metri dalla stazione. Ci
si allontanava e con il mento appoggiato alle braccia piegate e posate sulla
sbarra bianca e rossa, (allora si arrivava giusto a quell’altezza), si
attendeva la locomotiva. Appena passata cercavano le monete che il passaggio
del treno aveva fatto balzare lontano. Sulla rotaia rimaneva impressa
l’immagine della faccia della moneta che vi era posata sopra mentre dalla moneta scompariva quasi completamente; ne
risultavano delle piastrine metalliche oblunghe, non se ne poteva fare niente se
non ammirarne l’unicità. Con i chiodi era meglio, dopo schiacciati dal treno,
si appiattivano contorcendosi e allungandosi, diventando salgariani Kriss. Fino
all’età di dieci o undici anni, abbiamo avuto l’onore di poter vedere ancora in
attività quelle sbuffanti motrici che, bruciando carbone, rimpicciolirono il
mondo.
Se dovevamo andare
semplicemente dall’altra parte della linea ferroviaria ma le sbarre erano
abbassate o si stavano abbassando, ci attardavamo ogni volta per il semplice
gusto di veder passare il treno.
Appena al di là, sulla destra, scendeva lievemente una strada e poche centinaia di metri dopo c’era il
deposito di un “rutamat”. Il deposito di ferrivecchi, era circondato solamente
da una rete metallica nella quale trovavamo sempre un varco, (altrimenti lo
aprivamo noi), dal quale accedevamo per procurarci pezzi di ferro e i
costantemente necessari pezzi per le biciclette, ci si andava sempre di
domenica: c’era meno gente in giro e il deposito era incustodito.
La stazione questo era, un
posto da dove partire, fuori, e anche un posto da dove partire, dentro, bastava
guardarla una stazione o un treno, e, soprattutto noi piccoli, si cominciava a
viaggiare.
Oggi, invece, l’uomo ha
generato luoghi, o meglio, nonluoghi, dove le persone si radunano per far
compere e dove, chi desidera vendere, organizza eventi musicali o altro. Quando
ero piccino io, invece, oltre alla stazione, c’era un luogo e luogo era, chiamato La
pineta. Prima del ponte che attraversa il Toce, dove ora c’è lo svincolo autostradale, c’era una piccola pineta, lunga poche
centinaia di metri, ospitava feste e avvenimenti con tanto di canti e balli.
L’odore delle salsicce e della polenta o del riso, avvolgeva tutto, bimbi
giocosi e adulti avvinazzati che davano sfogo ai loro movimenti e al vociare. La Festadellunità era
un’avvenimento atteso anche da noi più piccoli, non vi si trovava giostre o
quant’altro adatto a noi, ma il clima di manifesta gioia espressa dagli adulti,
ci appagava lo stesso. Canti e musica, quasi sempre, anzi, sempre, liscio,
erano eseguiti da gruppi che facevano di tutto per assomigliare ai Casadei, vere
star dell’epoca, sia nell’abbigliamento
degli uomini, che nelle gambe scoperte delle donne dove l’apoteosi di
paillettes e lustrini raggiungeva il massimo esprimibile.
Quella pineta non c’è più,
nemmeno si saprebbe come riprodurla anche se ancora viva nel fantasticare dei
bimbi d’allora e in molti rimpiangono quel modo di gioire eppure, non so se, a
parte il romanticismo dettato dai ricordi, oggi ci si divertirebbe nello stesso
modo, sicuramente non si potrebbe parlare al telefonino comprendendo ciò che,
dall’altra parte dell’etere, non possono fare mai a meno di riferirci, schiavi
come siamo di un’apparecchio che ai tempi della Pineta e della Stazione si
vedeva solamente nei film di fantascienza.