domenica 3 giugno 2018

17.000



Sono yemenita, ma la mia provenienza è importante solo se comparabile a quella di chiunque abbia dovuto emigrare perché il proprio paese non offre più la sicurezza dell'incolumità, ne per se ne per i propri cari.
Ho lasciato il mio Paese perché è stato dapprima, invaso da persone che hanno preso alla lettera e anche in modo figurato, il verbo invasare in secondo, luogo perché chi sta bombardando non lo fa per il nostro bene ma per il suo.
Avevo una bicicletta che, quando la trovai, era nuova e senza alcun danno; la vidi appoggiata ad un muro subito dopo che un bombardamento aveva buttato giù la casa della quale quel muro era parte. Mi misi seduto sul marciapiedi di fronte con i piedi a mollo in un rivolo d’acqua che proveniva da un punto non individuabile da dov’ero; qualche tubo aveva ricevuto lo stesso trattamento di ogni cosa del quartiere e rilasciava un’acqua pulita e fresca. Quell’acqua scorreva da poco, lo si intuiva dal rivolo che, proprio i  quegli attimi, via via s’allungava, ebbi l’impressione che qualcuno, dietro l’angolo, stesse vociando e benedicendo quell’acqua. Mi affaccio e alcune donne stavano scavando un fosso, immagino per infilarvi i contenitori pronti a raccogliere il prezioso liquido. Sono tornato a sedermi di fronte alla bicicletta in attesa di qualcosa che confermasse l’assenza di un padrone del veicolo avvistato. Mi addormentai svegliandomi con il richiamo, forte ma lontano, che invitava alla preghiera.
Nessuno aveva preso la bicicletta e, siccome è una cosa veramente preziosa, il fatto che nessuno si fosse avvicinato voleva semplicemente dire che, se ancora aveva un padrone, costui non aveva modo di venirla a prendere.
Per guadagnare qualche riyial, trasportavo qualsiasi cosa che potesse entrare nel carretto che avevo costruito, da un punto all’altro della città. Lo spingevo a braccia, senza meta, avanti e indietro finché qualcuno mi chiamava, una tanica o bidone doveva sempre cambiare di posto ed io ero lì per quello. Ci volle qualche giorno per trovare cosa mi servisse, ma la trovai, e nell’officina di un amico saldammo delle staffe al carretto per poterlo attaccare alla bicicletta.

Immaginate che, dopo tanto tempo, per caparbietà e speranza enorme, sono riuscito ugualmente a rimettere insieme un'abitazione e che alcuni miei compaesani fossero riusciti a fare lo stesso, ma non sapevamo dove collegare i tubi con i quali,  con tanta fatica, avevamo ripristinato gli impianti idraulici; la stessa cosa toccò agli impianti elettrici, ripristinati senza tante accortezze estetiche, non sapevamo come riempirli di corrente elettrica.
Non c’era acqua: quel rivolo fresco era da casa mia irraggiungibile con dei tubi. Corrente elettrica? nemmeno a parlarne; chi aveva attivato generatori a motore si guardava bene dal dare corrente ad altri, il carburante era di più difficile reperimento dell’acqua, una tanica d’acqua la potevi anche mettere in testa e trasportare ma se venivi avvistato con una bottiglia di benzina, ti sparavano a vista.
Immaginate che, quello che sono riuscito a ricostruire, è stato subito buttato per aria con altre bombe.
Vecchi compagni di scuola? Morti. Colleghi che come me portavano per la città i giornali con la bicicletta? Morti. Insegnanti dei miei figli? Morti.
Il bottegaio, quello che vendeva l’acqua a bicchieri, quello della pompa di benzina, la vecchietta alla quale mio figlio faceva dei servizi perché era amica della nonna, mio cugino impiegato al comune, il dottore che aveva fatto nascere mio figlio e mia figlia, mio padre e mia madre, mio fratello i miei tre cugini ed entrambi i loro genitori? Morti.
Già mezzo rotto, il mio cuore si finì di rompere con la morte di mia moglie e di mia figlia: un mezzo blindato le ha travolte dopo essere stato colpito da una bomba, senza controllo si abbattè su uno spigolo di muro dietro al quale si erano riparate.
Siamo rimasti mio figlio ed io che, con la bicicletta ora dotata di carretto, dormiamo e mangiamo là dove la fine della giornata ci coglie.
Mio figlio ha sedici anni ed è un bel pezzo di ragazzo, quindi, i soldati non devono vederlo. Più di una volta l’ho fatto coprire con i due pezzi del niqab e un lungo velo nero che ho sempre nel tascapane, se lo scoprono ci ammazzano entrambi, ma il se, non esiste per lui, se gli mettono un mitra a tracolla. Un giorno, dovevamo passare davanti ad un gruppo di ragazzi, senza divisa ma armati, quindi vestii mio figlio da donna e lo feci salire sul carretto dicendogli  di lamentarsi come se stesse male. Ci hanno guardato storto ma ci hanno fatto passare senza chiederci nulla.
Quel colpo di fortuna mi fece capire che, la bicicletta e la mia conosciuta attività mi avevano salvato ma anche che  tutta la buona sorte che mi spettava nella splendida Sana’a era esaurita e che il bel colore dei mattoni avrei dovuto andarlo a vedere da qualche altra parte.
I due anni successivi sono durati di più dei normali ventiquattro mesi. La bicicletta, senza carretto e quasi sempre condotta a mano per portare i pochi stracci e contenitori che ci erano rimasti, ci portò fin sulla sponda del mediterraneo e ora non mi serviva più; l’ho venduta per un pasto e per un posto per dormire, non un letto intendiamoci, un pezzo di marciapiedi sul quale poter stare senza che qualcuno mi cacciasse.
Sono arrivato in Italia con l’aiuto di un’organizzazione umanitaria, ho  trovato una casa e un lavoro in un ristorante. Servo ai tavoli per sette o otto ore, la sera arrivano alcuni giovani colleghi che lavorano per mantenersi agli studi ed io inforco la mia bicicletta italiana e consegno le pizze per altre due o tre ore. Non conto più per quanti  chilometri pedalo in un giorno, ma dopo quelli fatti su strade distrutte nella mia, nonostante tutto, bella città, pedalare sull’asfalto liscio, vi assicuro, è molto poco stancante. Intanto seguo l'iter che mi ha offerto la possibilità di essere considerato un rifugiato del quale ho assunto più forme: politico, di guerra, economico. Non importa, mi dico: fate voi.

Mio figlio, nel frattempo è cresciuto e va a scuola con buoni risultati ma non sta bene.
È escluso dalla possibilità di usufruire delle medesime opportunità dei suoi coetanei italiani e frequenta suoi connazionali che vivono i medesimi disagi.
‎Non riesco a seguire la sua quotidianità e alcuni dei suoi compagni non mi piacciono, sono violenti e arrabbiati.
‎Mi accorgo che anche lui è diventato violento e arrabbiato quando, una volta, urlando che ero un vigliacco, buttò la bicicletta che mi portavo fin sopra casa, al quinto piano, (manco a dirlo che nell’ascensore non ci entrava) dal balcone.
Qualche giorno dopo,dal balcone di casa ha buttato, sul mercato sottostante in quel momento attivo e frequentato, molti sassi; un po’ alla volta li aveva portati su e messi in camera sua nella quale mi era vietato entrare, non aveva nulla, quest’unica sua intima proprietà, la rispettavo in modo quasi sacro. Non molto grandi, ma tutti insieme e dal quinto piano hanno fatto parecchi danni e ferito molte persone. Dopo il trambusto prima di essere portato via mi gridò: Pà! I sassi sono una sola volta 17.000.
Non diedi peso a questa sua affermazione, su ben altri argomenti andò tutta la mia attenzione.
‎E' stato arrestato e io ho ricevuto l'obbligo di lasciare il paese: sono rimasto, ma se il disagio era forte già in situazioni ordinarie, adesso, l’intolleranza che mi avvolge è più tangibile di quei sassi.
Ora immaginate i titoli dei giornali e le vene del collo di leghisti e fascisti.

Faccio un accenno al luogo dove vivo senza scrivere il nome del paese; vivo in un posto dove 200 famiglie vivono con lo stipendio di chi lavora in una fabbrica dove un tempo producevano esplosivi per miniere, ora le miniere sono tutte chiuse in quanto non economicamente vantaggiose da sfruttare ed è stato acquistato per essere convertito alla produzione di bombe. Queste bombe vengono vendute ai governi e ai guerreggianti che occupano la medesima parte del mondo dalla quale provengo.
‎Ora immaginate queste bombe, vi dico che hanno un potere deflagrante e una capacità distruttiva enorme.
‎Immaginate queste bombe, queste centinaia di bombe che partono dal paese in cui vivo ora e che  permettono ai miei attuali compaesani di venire a mangiare nel ristorante che mi dà lavoro e che mi ha permesso di mandare mio figlio a scuola, e hanno permesso a me di comprare una bicicletta nuova fiammante.
La mia bicicletta ha la forza che io imprimo sui pedali e tecnologicamente non è all’avanguardia, non ha nemmeno il cambio, è robusta ma a confronto di quelle bombe, è poco più di un cucchiaio, in confronto ad un buldozer.
Immaginate me, un uomo di poco più di cinquant’anni che pedala su una bicicletta per portare pizze che consegna in cambio del denaro, anch’esso proveniente dagli stipendi degli operai della fabbrica, necessario a vivere e a pagare gli studi di un figlio che ora sta in galera.
Ora immaginate, ma immaginate davvero, un pilota che con la sua bella uniforme pressurizzata e con il casco nella quale visiera ha mirini e altre diavolerie direttamente davanti agli occhi, premere il bottone che rilascia le bombe prodotte nel paese in cui vivo per farle cadere sulle case della città dalla quale sono scappato.
Sana’a è nei miei occhi ogni volta che li chiudo ed è davanti all’ogiva di quelle bombe mentre cadono al suolo.
Quelle bombe, centinaia di bombe,  esplodendo, lanciano, ciascuna,  tutto attorno, schegge d’acciaio a velocità pazzesche, lanciano schegge in un numero veramente importante.
17.000.

(questa è la versione integrale, per partecipare
 al concorso il numero di battute doveva essere inferiore quindi l'ho modificato)


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