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Per tanti anni ho scritto utilizzando lettere d’ogni foggia.
Grandi, piccole; grandissime, minuscole; di piombo, di plastica e di legno.
Ricordo che quando iniziai come garzone di tipografia, nel mettere a posto il risultato della scomposizione di un manifesto, notai che alcune lettere avevano un solco che le attraversava, quindi, venivano utilizzate solamente se quelle buone non erano in numero sufficiente.
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Da cosa fosse dovuto quel solco me lo spiegò Peppino: la vecchia macchina da stampa aveva la puntatura dei fogli da effettuarsi a mano. Si prelevavano i fogli, uno alla volta, e li si posizionava in una squadra d’appoggio dove il cilindro di stampa, con apposite pinze, ad ogni giro, li afferrava trascinandoli all’interno del macchinario per restituirli stampati. Dopo stampati, però, per poterli trascinare fino alla restituzione, non avendo una successiva serie di pinze, i fogli venivano trattenuti, lungo tutto il percorso all’interno macchina, con una serie di fili di spago che giravano insieme al cilindro di stampa. Ovviamente questi spaghi venivano spostati a seconda della dimensione del foglio; avvicinati tra loro se il foglio era piccolo, allargati, se grande. Se ci si ricordava di allargarli però, se non lo si faceva, nel momento della stampa, capitavano tra il foglio e le lettere ed ecco il solco e conseguenti bestemmie.
Quante storie potrebbero raccontare quelle lettere: feste e annunci mortuari; ordinanze comunali e campagne elettorali. Però nessuno più le interroga. Prima la stampa offset, poi quella digitale, ne hanno fatto delle reliquie di un mondo che non c’è più.
A meno che…
Non più lettere allineo per scrivere al contrario, di lavori successivi alla stampa ora mi occupo e, per puro diletto, tempo fa cominciai a lavorare il legno.
Vedi un po’, l’acca, da sempre muta (tranne che nella parola Elah, famosa marca di caramelle) e sfottuta dalle altre lettere, si sta prendendo una rivincita visto che, almeno in tipografia, tutte si sono ammutolite.
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Ecco che prendo una muta acca e, non più chiacchierone di lei, altre lettere.
Le taglio a metà.
Le foro al centro…
…e le monto sul mio attuale compagno, un tornio usato, vantaggioso affare trovato in internet (altra causa dell’ammutolimento di lettere e punteggiature tridimensionali). Proviene dalla Sicilia ed era di proprietà di del simpatico gestore di una sala giochi. Gaetano, così si chiama il gestore, per un po’ di tempo si è dilettato nella produzione di stecche da biliardo che, su richiesta, vendeva ai propri clienti, fino a che, vuoi il limitato numero di richiedenti, vuoi una ricca scorta nel frattempo accumulata, viene a nausea della monotonia delle operazioni di produzione. Poco sfogo si può dare alla fantasia nel produrre stecche da biliardo a meno che non ci si metta ad abbinare legni di diverso colore; solchi non ne puoi fare, curve non ne puoi apportare.
. Questo è quello che pensavo fino a che non ho parlato con
lui capendo quanto semplice la stavo facendo. Gestire una sala da biliardo per
procacciarsi di che vivere è un conto, vivere il biliardo come una disciplina
necessariamente colma di consapevolezza è ben altra cosa.
Fermarsi, annullare il mondo circostante, immaginare
traiettorie che magari ancora non si è sperimentato, va ben oltre il punteggio
che si vuole ottenere. Mettere ogni parte del proprio corpo esattamente come si
pensa essere adatto per quel particolare, specifico gesto è come posizionarsi
per eseguire una figura tàijíquán che solo apparentemente è un
semplice gesto ginnico.
Così è per il suo strumento, la stecca.
Come fa una stecca a rimanere, per molti anni, perfettamente lineare ed equilibrata se dietro
non ci fossero stati ebanisti pronti ad inventare sempre più nuovi
e adatti accoppiamenti ed incastri di vari legni?
Ecco dove la fantasia da sfogo in un solo
apparentemente semplice oggetto.
Gaetano, dopo aver venduto a me il suo tornio, si è
accorto che non era finita la sua opera di produttore di stecche, ma
semplicemente che il tornio che aveva, adattissimo per me alla produzione di
ciò che mi piace, non era più sufficiente per i risultati che voleva ottenere
in termini di precisione ed eleganza. Ora ha un tornio più preciso e adatto ad
ottenere stecche di alta qualità; gli è mancato per un po’ il contatto con il
legno, tra poco ricomincerà a seguire i sogni di artisti della stecca con uno
strumento che gli permetterà di andare oltre, ma questa è un’altra storia.
Quel tornio attraversa lo stretto di Messina e giunge nel basso Lazio, a Spigno, finalmente può rinnovare le sue possibilità dando vita a forme d’ogni tipo: vasetti, mortai, soprammobili, trottole e penne.
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Esatto! penne.
Una muta acca torna a dire la sua anche se di suoni non ne emette se non quello del rollare della sfera sul foglio.
Tante lettere ora, con il contributo di un siculo tornio, tornano ad avere voce.
Lettere molto usate come le a, oppure le e, pur essendo tutte del medesimo legno (solitamente pero o bosso), hanno acquisito una tonalità di colore scuro quanto l’inchiostro che hanno assorbito; l’acca, che veniva utilizzata raramente, vedeva soggetti ancora nuovi o quasi all’interno della cassa, quindi è rappresentata da pezzi più chiari.
Volendo, dal colore della penna, ora puoi scrivere parole che si riconoscono dalla sequenza di chiaro e scuro.
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Una penna scura scriverà una bella A
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Una penna chiara non potrà che scrivere un’ACCA
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Però una acca, una a o qualsiasi altra lettera, potranno scrivere qualsiasi cosa: una sola lettera, tante parole.
Sono contento di poter dire d’essere un compositore tipografico. Altrettanto contendo di essere poi diventato compositore linotipista.
Ora sono felice di poter dare nuova voce a lettere ormai mute, parleranno con le mie penne.
Peccato che non fate mercatini a Firenze....sarei venuta a comprare una penna un po' chiara e un po' scura per scrivere di gioie e dolori!
RispondiEliminaComunque ho la fortuna - e non penso l'abbiano altri - di avere il mio nome pronto per la stampa, con le sue belle lettere di legno....